GLI IMPIANTI IPERBARICI INDUSTRIALI
PER BASSO E ALTO FONDALE
Aspetti storici, tecnologici,
tecnici e applicativi degli impianti per immersione profonda e saturazione
Giulio E. MELEGARI MAZZONI
SOMMARIO
Gli impianti per immersione con tecniche di alto fondale costituiscono
da oltre un trentennio il supporto tecnologico strutturale e operativo per
gli interventi iperbarici in saturazione che a loro volta hanno
rappresentato e rappresentano ancora il più efficace e insostituibile
metodo di intervento lavorativo umano in acque profonde. Questi impianti
rappresentano, dal punto di vista concettuale e tecnologico, il risultato
di una evoluzione progressiva nata con le prime campane di immersione e
sviluppatasi con una crescita di tipo esponenziale fino a generare i
simulatori di immersione profonda (wet & dry experimental units) per
addestramento e ricerca sperimentale e gli impianti di saturazione a due
campane e doppio livello (dual SDC / multilevel saturation systems) che
nell’ultimo ventennio hanno determinato e caratterizzato il progresso
dell’intervento iperbarico nei cantieri di costruzione e montaggio per
l’industria estrattiva degli idrocarburi in altura. Il raggiungimento di
crescenti profondità, la costituzione di piattaforme di vita e di
intervento iperbarico sempre più affidabili, efficaci, confortevoli e
sicure, la ricerca di sempre più approfondite e solide conoscenze e
competenze di fisiopatologia dell’immersione, la stesura e la
promulgazione di un corpus juris capace di garantire ordinamento,
sicurezza e professionalità nel lavoro subacqueo sono stati i binari di
sviluppo di questa crescita tesa a soddisfare le esigenze della nascente
industria energetica del XX secolo. Poichè sono le esigenze dell’industria
a determinare in chiave economica le risposte e le realizzazioni che la
stessa industria mette in campo per soddisfare le proprie necessità
esecutive e applicative, è sulla base di queste esigenze e del loro
evolversi nel tempo che si devono identificare e inquadrare tappe, fasi e
capitoli nel progresso dell’intervento subacqueo iperbarico e dei sistemi
e metodi di cui questo si avvale.
ABBREVIAZIONI ED ACRONIMI
AF Alto Fondale ( 50 m.)
BF Basso Fondale ( 50 m.)
CMAS Confederazione Mondiale delle Attività Subacquee
DCP Decompressione
DDC Deck Decompression Chamber
DSV Diving Support Vessel
ECU Environmental Control Unit
IUC International Underwater Contractors (USA)
LARS Launch And Recovery System
LS Life Support
LSS Life Support Sistem
OTS Operatore Tecnico Subacqueo
PTC Personnel Transfer Capsule
SDC Submersible Decompression Chamber
SMZ Sommozzatore
SNPAC Sindrome NeuroPsichica da Aria Compressa
US United States
USS United States Ship (Submarine)
STORIA E PROGRESSO
L’immersione iperbarica è andata profondamente evolvendosi,
filosoficamente e tecnologicamente, nel suo transito dagli albori
dell’intervento lavorativo con le prime rudimentali campane rinascimentali
alla intensa attività per la industria degli idrocarburi nei giorni
correnti. In questo progresso si possono ravvisare sei distinti periodi
evolutivi di diversa durata e di diversa impronta, caratterizzati da una
propria specifica fase tecnologica, tecnica e filosofica.
- (Dagli albori al 1830) I rudimenti della immersione in apnea e la
utilizzazione delle campane per brevi interventi a piccola profondità.
- (1830 – 1940) La vera nascita dell’iperbarismo e la comparsa delle
figure del palombaro e del cassonista, il sorgere della fisiopatologia
subacquea, il fulgido scorrere della epopea dello scafandro elastico sui
relitti di ogni tipo
- (1940 – 1965) Gli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra con la
diffusione dell’autorespiratore autonomo e della intensa attività
sperimentale per la vita e il lavoro sul fondo del mare in una corsa verso
le grandi profondità.
- (1965 – 1975) La comparsa dei primi sistemi di saturazione a bordo dei
pontoni da lavoro, delle piattaforme di perforazione, dei mezzi navali di
circostanza.
- (1975 – 1990) La diffusione delle navi appoggio per i lavori subacquei e
dei grossi impianti di saturazione per lavoro in mare a grande profondità
e per immersione sperimentale (wet & dry hyperbaric centres).
- (1990 – 2000) Periodo di affinamento e di calibrazione, accompagnato dal
confronto, talora su basi di competitività, talora su piani di
complementarità, tra la robotica e l’iperbarismo, con la inevitabile
contrazione di quest’ultimo e la sua restrizione alle fasce batimetriche
meno avanzate. Quest’ultimo decennio ha sancito la moderna struttura e la
fisionomia degli impianti di immersione e le filosofie e gli schemi di
intervento iperbarico che oggi sono seguiti e applicati nella loro realtà
industriale e legislativa.
BASSO E ALTO FONDALE
La distinzione fra basso e alto fondale è divenuta di fondamentale
importanza tanto nel definire due settori batimetrici di intervento
subacqueo quanto, soprattutto, per differenziare metodi, tecniche e
attrezzature di intervento e conseguentemente tutte le implicazioni di
sicurezza , capacità operativa , oneri organizzativi che vi si
accompagnano. La distinzione tra i due domini è un fatto recente in
termini di precisa demarcazione batimetrica ed è il risultato di esigenze
diverse che nascono dalle necessità operative, dalla fisiopatologia
subacquea, da vincoli di sicurezza degli operatori, da filosofie di lavoro
e di intervento subacquei . Le rispettive definizioni di basso e alto
fondale sono nate come elemento descrittivo colloquiale usato già dai
palombari a scafandro elastico per indicare profondità di intervento e di
lavoro più o meno grandi senza che venisse assegnato un preciso limite
batimetrico. La continua e progressiva ricerca di profondità sempre
maggiori nelle immersioni con scafandro elastico e il raggiungimento di
una crescente capacità lavorativa ed esecutiva in immersione profonda
superando i vincoli e le difficoltà imposti dai limiti tecnologici
dell'epoca e dalle restrizioni fisiopatologiche ancora non completamente
note, spostarono gradualmente verso acque più profonde il limite e il
concetto di alto fondale . Già nel 1914 palombari della scuola
sperimentale della marina degli Stati Uniti sotto la guida del
responsabile George Stillson si immersero ripetutamente a profondità
prossime alla quota di 90 metri e nell'anno seguente quando il sottomarino
USS F4 affondò in oltre 90 metri (304 piedi) vicino ad Honolulu alcuni di
questi palombari tra i quali Frank Crilley si immersero fino a
raggiungerne lo scafo usando i convenzionali scafandri elastici ad aria
compressa e utilizzando per la decompressione le nuove tabelle di
decompressione destinate a costituire la base delle storicamente famose
tabelle US Navy . In quell'epoca, nella quale raramente i palombari a
scafandro elastico spingevano i loro interventi a profondità superiori a
trenta o quaranta metri, l'intervento di Honolulu stabilì un vero e
proprio primato di immersione e lasciò percepire la possibilità di
spingere la capacità dell'operatore iperbarico verso fondali veramente
alti. Seguirono altre conquiste di maggiori profondità nel primo
dopoguerra e la introduzione dell'elio come gas inerte nella composizione
di miscele respiratorie sintetiche permise a Max E. Nohl di raggiungere
nel 1937 la profondità di 128 metri (420 piedi) nel lago Michigan (USA)
equivalente a 125 metri (410 piedi) in acqua di mare. Seguirono la
sfortunata esperienza di Arne Zetterstroem che, respirando una miscela
sintetica con idrogeno, raggiunse nel 1945 la profondità di 161 metri (528
piedi) e il primato di William Bollard che nel 1948 raggiunse la
profondità di 164 metri (540 piedi) con miscela elio/ossigeno immergendosi
dalla nave appoggio "Reclaim" della Royal Navy . Numerosi altri
esperimenti con miscele sintetiche a base di elio e il raggiungimento di
profondità sempre maggiori confermarono e convalidarono il concetto di
alto fondale come dominio iperbarico oltre i limiti batimetrici
raggiungibili respirando aria compressa. L'avvento degli autorespiratori
autonomi ad aria compressa nel secondo dopoguerra riaccese l'interesse per
il basso fondale riscoperto questa volta in chiave di esplorazione
scientifica e di attività sportiva. Naturalmente la disponibilità di
sistemi di respirazione, ben più maneggevoli e disponibili di quanto non
fossero le ingombranti e complesse attrezzature da palombaro, diffuse e
promosse il desiderio di cercare e stabilire limiti più profondi per
l'impiego di queste nuove attrezzature di respirazione autonoma.
Naturalmente la diversa realtà operativa di sommozzatore in assetto
leggero e di palombaro in assetto pesante rendeva diverse, sia pure solo
in termini marginali, le implicazioni fisiopatologiche della respirazione
di aria compressa e consentiva comunque all'operatore con autorespiratore
autonomo di raggiungere profondità maggiori in tempi molto minori rispetto
al palombaro acquisendo così spesso la illusoria convinzione di essere
immune o almeno parzialmente esente dalla sindrome neuropsichica da aria
compressa (SNPAC) e dai disturbi ad essa associati che avevano
perseguitato il palombaro nella romantica forma della ebbrezza di
profondità . Gli inevitabili incidenti e le inevitabili ricerche di
stabilire primati che portarono Eduardo Admetlla a 100 metri nel 1957 ,
Hope Root a 122 metri nel 1958 , Ennio Falco , Alberto Novelli e Cesare
Olgjai a 131 metri nel 1959, portarono anche la CMAS nel 1960 (Barcellona)
a stabilire di non riconoscere i primati di profondità con autorespiratore
ad aria e a fissare i limiti di profondità di 40 metri per tutti i
brevettati svolgenti attività sportiva, 60 metri per piccoli lavori e
interventi leggeri, 90 metri per sola osservazione . Si trattava
chiaramente di limiti di profondità emessi e stabiliti da una
organizzazione internazionale che non aveva giurisdizione in termini
legislativi e giuridici sugli operatori subacquei professionisti ma che in
ogni caso mostrava di avere considerato e percepito la necessità di
vincolare con limiti di qualche tipo la profondità massima accessibile con
autorespiratori ad aria compressa. Il supporto dato dalla fisiopatologia
iperbarica in questo senso è stato determinante con la effettuazione di
numerosi esperimenti sulla sindrome neuropsichica da aria compressa e la
definizione delle profondità critiche alle quali le capacità
dell'operatore risultano ridotte e menomate. Già nel 1861 J.B.Green aveva
segnalato la presenza di disturbi mentali nelle immersioni a 48 metri e
nel 1903 L.Hill e J.J.McLeod avevano osservato simili sintomi nei
cassonisti a 45 metri. Nel 1939 A.R.Behnke e O.D.Yarbrough rilevarono che
i segni di narcosi scomparivano se si sostituiva l'elio all'azoto
dell'aria , ma peggioravano notevolmente se si sostituiva invece l'argon
all'azoto . Nel 1941 E.M.Case e J.B.S.Haldane studiarono l'effetto della
aggiunta di anidride carbonica all'aria compressa e osservarono un
peggioramento dei sintomi mentali . Numerosi studi e cicli sperimentali
più recenti svolti tra gli anni "50 e gli anni "70 confermarono la
necessità di limitare la profondità di impiego dell'aria compressa per
limitare anche l'effetto della sindrome neuropsichica da questa provocata.
Il limite posto dalla fisiopatologia iperbarica non può essere un limite
netto e definito, stante la soggettività della manifestazione dei sintomi
della SNPAC e la variabilità individuale della reazione ad essi entro un
arco batimetrico che può essere compreso fra 30 e 70 metri di profondità
equivalente in acqua di mare . La imposizione di un limite più rigoroso e
oggettivo è derivata dalla legislazione e dalle normative che, ove varate,
hanno fissato una profondità tale da non danneggiare eccessivamente nè la
flessibilità operativa nè la sicurezza dell'operatore , tenendo debito
conto di un limite di riferimento fisiologico medio piuttosto cautelativo
in termini statistici. Pertanto verso la metà degli anni "70 , con la
emissione delle prime normative di legge per gli interventi subacquei
professionali nelle zone del Mare del Nord, il limite del basso fondale è
stato fissato a 50 metri (165 piedi) e tale limite è stato recepito dalla
maggioranza delle normative internazionali emesse successivamente . Oggi
il limite di 50 metri è confermato nelle normative del Regno Unito ,
Norvegia , Svezia , Danimarca , Germania , Olanda , Spagna e anche in
Italia è confermato dalla ordinanza n. 77/92 della Capitaneria di Porto di
Ravenna del 23 Ottobre 1992 limitatamente ai settori di applicazione e con
i limiti intrinseci di nebulosità descrittiva . In Francia il limite di
impiego dell'aria compressa viene mantenuto ancora oggi a 60 metri di
profondità e rappresenta di fatto la separazione tra basso e alto fondale
indipendentemente dal sistema di immersione impiegato .
Concetto e limiti della definizione di Basso e Alto Fondale
La demarcazione tra basso e alto fondale è un concetto basato su
considerazioni e aspetti di tipo diverso legati alla fisiopatologia
iperbarica, alla tecnologia e alla metodologia operativa, alla
legislazione e ai risvolti economici e industriali che accompagnano le
attività e le operazioni di intervento subacqueo iperbarico in altura. Le
considerazioni legate alla fisiopatologia non sono in grado di fornire o
determinare un limite netto basato su una rigida e precisa separazione dei
due domini proprio perchè la soggettività individuale e la diversa
risposta che ogni organismo fornisce agli effetti della SNPAC tracciano
una fascia di transizione piuttosto che un confine netto e delineato . Le
considerazioni basate sulla tecnologia e sulla metodologia operativa sono
analogamente elastiche e aleatorie in quanto sistemi di immersione diversi
possono giustificare limiti di separazione diversi e uno schema operativo
al posto di un altro può analogamente giustificare un limite di
separazione situato a una quota più o meno alta . Le considerazioni di
ordine legislativo devono necessariamente prescindere dalla influenza
degli aspetti industriali e dall'impatto economico in quanto devono
puntare verso il limite più cautelativo e più conservativo dal punto di
vista della tutela della sicurezza della vita umana .
In termini di fisiopatologia della immersione il limite fra basso e alto
fondale è il limite sopra il quale è sicura e accettabile la respirazione
di aria compressa e sotto il quale è necessario o raccomandabile passare
alla respirazione di miscela sintetica a basso tenore di ossigeno . Le
considerazioni basate sugli aspetti fisiopatologici non sono influenzate
dal fatto che una miscela sintetica sia respirata da un autorespiratore
autonomo o da un sistema di immersione pressurizzato e alimentato dalla
superficie e conseguentemente questo , più che a un limite netto e
delineato, porta ad una fascia di transizione che abbraccia il settore di
sensibilità individuale e di soggettività fisiologica. Le considerazioni
di ordine industriale e procedurale d'altra parte portano alla definizione
di una analoga zona di transizione originata dal fatto che vi sono
interventi brevi e interventi più lunghi, impegni lavorativi ed esecutivi
più complessi e gravosi e altri meno complicati e impegnativi. Un criterio
puramente industriale ed operativo porterebbe, come effettivamente si
riscontra nella legislazione francese, alla possibilità di effettuare
interventi ad aria fino a 60 metri di profondità purchè brevi e non
gravosi e interventi a miscela con sistemi di immersione non pressurizzati
(e.g. campana bagnata/aperta) fino a 75 o 90 metri per la esecuzione di
attività estremamente limitate nel tempo di attuazione e nell'impegno
esecutivo . Come risultato di tutto questo, la imposizione legislativa ,
che è sempre cautelativa nei confronti della sicurezza degli operatori e
che assume sempre i limiti di sicurezza più conservativi e restrittivi, ha
fissato in genere la demarcazione tra basso e alto fondale alla profondità
di 50 metri (165 piedi) senza concedere aree di transizione o integrazioni
di metodi e vicarianza di impianti di immersione e di miscele respiratorie
. Per la prescrizione legislativa in generale applicata nella maggior
parte degli stati che la impongono e comunemente riconosciuta nelle
procedure operative della maggior parte delle grosse società e ditte di
lavori subacquei la quota di 50 metri rappresenta il limite sopra il quale
si può respirare aria compressa , o eventualmente miscela azoto/ossigeno ,
utilizzando sistemi di immersione non pressurizzabili e sotto il quale è
obbligatorio il ricorso a sistemi di immersione pressurizzabili (i,e.
campana iperbarica e impianto di alto fondale) con la respirazione di
miscela sintetica. Se esistono e sono consentite deroghe a queste
prescrizioni è solo nel senso di una maggiore restrizione , come nel caso
di tecniche di alto fondale con impianti pressurizzabili per eseguire
lavori prolungati a profondità comprese nel settore del basso fondale che
rendono vantaggioso e più sicuro per gli operatori il ricorso a sistemi di
immersione dotati di campana iperbarica e camera (e.g. saturazione in
basso fondale).
Basso Fondale
Il dominio del basso fondale si estende tipicamente e giuridicamente dalla
superficie alla isobata di 50 metri e nell'ambito di questo intervallo gli
interventi subacquei professionali avvengono normalmente con la
respirazione di aria compressa o , in sua alternativa , di miscela
azoto/ossigeno (nitrox) . I sistemi di immersione utilizzati sono
tipicamente di tipo non pressurizzato , ovvero non permettono di creare e
mantenere un gradiente di pressione tra l'interno e l'esterno , ma
lasciano per tutto il tempo l'operatore direttamente esposto al valore e
agli effetti della pressione ambientale . Con le tecniche di basso fondale
pertanto la decompressione relativa alle immersioni che superano la curva
di sicurezza per la risalita senza tappe viene eseguita in acqua in fase
di riemersione. Unica eccezione è costituita dal caso della
"decompressione col salto" (surface decompression) particolarmente
applicata nel mondo anglosassone ma in genere rigettata e non attuata
nelle nostre metodologie . Questo metodo consiste essenzialmente
nell'effettuare la prima tappa di decompressione in acqua e quindi nel
risalire in superficie spogliandosi rapidamente dell'equipaggiamento in un
tempo non superiore a 3'30" ed entrando in camera di decompressione per
venire ricompressi rapidamente ed effettuare la decompressione completa
all'interno di una camera iperbarica in superficie a bordo del mezzo
navale di appoggio anzichè in acqua . In pratica l'organismo
dell'operatore si trova per un periodo non superiore a cinque minuti
totali soggetto alla liberazione di gas inerte nei tessuti organici , ma
poichè questo fenomeno non è istantaneo nelle sue conseguenze fisiologiche
e patologiche vi è il tempo sufficiente al trasferimento nella camera
iperbarica e alla ricompressione Sebbene in termini teorici tutto sia
accettabile ed eseguibile , non si può trascurare concettualmente la
interferenza dell'imponderabile che può comportare ritardi e intoppi nello
svolgimento regolare e nel concatenamento delle operazioni di risalita ,
svestizione e ricompressione in camera iperbarica dell'operatore .
Le attrezzature e i sistemi di immersione in basso fondale includono in
primo luogo gli autorespiratori autonomi il cui impiego è di fatto
scartato dalle consuete procedure operative e dalle normative vigenti
nella maggior parte degli stati europei e rimane riservato a interventi
speciali e specifici (e.g. operatori della protezione civile , VVFF e
corpi militari , ricercatori scientifici , immersioni condotte con
procedure eccezionali in ambienti nei quali è di fatto impossibile
utilizzare un ombelicale,etc.).Le tecniche di immersione in basso fondale
di normale applicazione industriale prevedono l'impiego di un casco
leggero (e.g. Kirby-Morgan o equivalente) e di un ombelicale di
collegamento con la superficie . L'ombelicale è normalmente costituito da
una linea gas per l'alimentazione di aria compressa respiratoria , da una
linea di acqua calda per il riscaldamento della muta a circuito aperto ,da
una linea telefonica per le comunicazioni, da una linea per il
profondimetro ad aria (pneumofatometro) che fornisce in superficie la
esatta profondità dell'operatore , da un cavo coassiale per l'invio in
superficie di eventuali immagini video da una telecamera che , quando
utilizzata , può essere montata sul casco dell'operatore o tenuta in mano
secondo le esigenze e le finalità dell'intervento subacqueo .
Oltre alla alimentazione respiratoria dalla superficie l'operatore dispone
di una bombola di riserva per emergenza in caso di interruzione di
afflusso dalla superficie . Questa tecnica di intervento colloquialmente
definita con "narghilè" (ingl. hookah) è indicata come immersione
alimentata dalla superficie (ingl. surface oriented diving). La sua
applicazione garantisce un notevole livello di sicurezza dell'operatore
che è sempre in contatto telefonico con la superficie, dispone di una
riserva respiratoria e di riscaldamento praticamente illimitata , ha un
costante tangibile legame di sicurezza (ombelicale) con chi lo assiste e
non deve pensare ad altro che al lavoro da eseguire in quanto il controllo
della profondità raggiunta e del tempo di permanenza è affidato
completamente a chi si trova in superficie ed è responsabile della intera
operazione. In questo modo l'operatore può lavorare da solo , nè più ne
meno come il palombaro tradizionale a scafandro elastico , in piena
sicurezza e in completo sinergismo con le operazioni svolte in superficie
(e.g. installazione di strutture , attivazione di utensili , etc.). La
messa a mare e il recupero dell'operatore da piattaforme fisse , pontoni
galleggianti e comunque da piattaforme di supporto elevate rispetto alla
superficie del mare , avviene per mezzo di un cesto metallico (ingl.
basket / diver deployment basket) e di sistemi di sollevamento adeguati e
certificati che consentono di superare rapidamente e agevolmente
l'interfaccia aria/acqua anche in condizioni di mare agitato . In
condizioni di corrente o di intervento in posizioni particolarmente
difficoltose o a profondità superiori a una trentina di metri la lunghezza
di ombelicale da maneggiare può risultare scomoda e faticosa e la
decompressione in acqua è spesso lunga e disagevole, inoltre può capitare
di dovere disporre sul fondo di due operatori simultaneamente per compiti
gravosi o contemporanei in posizioni diverse . In questi casi e comunque
in genere in tutti i casi di interventi prolungati o di interventi tra 30
e 50 metri di profondità si tende a ricorrere alla campana bagnata o
campana aperta (ingl. wet bell) che è una campana di tipo storico
tradizionale , non pressurizzabile , all'interno della quale gli operatori
possono trovare posto in numero di due o tre e mantenere la posizione
eretta con il torace e la testa all'asciutto in una bolla d'aria . Questo
permette , tra l'altro , di effettuare la decompressione molto più
confortevolmente che in acqua libera e di disporre di inalatori per
l'ossigeno puro e di comunicazioni telefoniche con la superficie senza
ricorrere al casco .
Alto Fondale
A partire dalla profondità di 50 metri l'aria compressa deve venire
sostituica con miscela sintetica elio /ossigeno (heliox) e la discesa e
risalita dell'operatore avviene mediante una campana iperbarica
pressurizzabile , dotata cioè di portello interno ed esterno e
suscettibile di mantenimento di condizioni rispettivamente di
iperpressione o ipopressione interna riguardo all'ambiente esterno . La
campana iperbarica è normalmente prevista per due operatori uno dei quali
(ingl.diver) esce e l'altro (ingl. bellman) rimane all'interno a
controllare il regolare svolgersi dell'ombelicale e il normale
funzionamento delle attrezzature e delle dotazioni strumentali . In caso
di lavori complessi e gravosi è possibile porre tre uomini in campana ,
due dei quali escono mentre il terzo rimane in assistenza e a disposizione
per eventuali emergenze . La effettuazione di immmersioni con queste
tecniche prevede che la discesa avvenga con l'interno della campana a
pressione atmosferica , il portello interno aperto e quello esterno chiuso
e placcato contro il battente dalla pressione idrostatica . Quando la
campana è posizionata vicino al punto di lavoro l'operatore designato alla
fuoriuscita indossa il casco e si prepara completamente . Quindi i due
operatori aprono la mandata di miscela respiratoria pressurizzando
l'interno della campana finchè la pressione interna eguaglia la pressione
idrostatica esterna . A questo punto il portello esterno , i cui cani di
chiusura sono stati preventivamente aperti , cade spontaneamente rendendo
possibile la fuoriuscita (ingl. lock out) dell'operatore . In questo modo
si minimizzano i tempi di compressione degli operatori dalla superficie
alla profondità di lavoro riducendo proporzionalmente il tempo totale
(discesa + tempo di fondo) da considerare ai fini della decompressione
rispetto a quanto avviene con la lenta discesa della campana a portello
aperto e la continua progressiva compressione interna durante la discesa .
Questa procedura di immersione definita "immersione di intervento" (ingl.
bounce diving) prevede ogni volta al suo termine la effettuazione di una
decompressione degli operatori che risalgono in superficie e transitano
dalla campana pressurizzata alla camera di decompressione . Non è pertanto
conveniente ricorrervi per lavori che complessivamente richiedono un
elevato numero di ore uomo sul fondo o che devono venire eseguiti a
profondità superiori a ottanta o novanta metri . In questi casi si ricorre
alla procedura di "immersione in saturazione" (ingl. saturation diving)
utilizzando lo stesso impianto di alto fondale opportunamente arricchito
di un adeguato sistema di rigenerazione della atmosfera interna (ingl.
life support system / ECU = Environmental Control Unit). Gli operatori
vengono compressi alla quota di fondo e vengono organizzati normalmente in
tre coppie che si possono dare il cambio con turni di otto ore per coprire
la intera giornata lavorativa di 24 ore . La coppia di turno transita
dalla camera iperbarica dove gli operatori soggiornano alla campana sempre
rimanendo in condizioni di pressione equivalenti a quelle del fondo . La
discesa viene effettuata con il portello interno della campana chiuso e
mantenuto in chiusura dalla sovrapressione interna . Quando si raggiunge
la quota di lavoro il portello , i cui cani sono stati preventivamente
mantenuti aperti , si solleva spontaneamente e l'operatore designato alla
fuoriuscita può immergersi e svolgere il suo lavoro ricevendo il cambio
dopo circa quattro ore dal collega . Al termine del ciclo di circa otto
ore la squadra risale in superficie con portello interno chiuso e
rimanendo alle condizioni pressorie del fondo . In superficie la campana
viene clampata alla camera iperbarica , avviene il cambio di squadra
mediante trasferimento in equipressione tra campana e camera e mentre la
nuova squadra scende sul fondo per il suo turno di lavoro i due operatori
appena risaliti possono disporre di circa sedici ore per il riposo e i
pasti . La decompressione avviene per tutto il gruppo di operatori al
termine del ciclo di lavoro la cui durata può arrivare anche a due o tre
settimane continuative . In genere la decompressione da saturazione può
essere definita in termini di risalita con velocità di un metro all'ora ,
quindi un operatore saturato alla profondità di un centinaio di metri può
venire decompresso in circa quattro giorni complessivi o poco più , un
tempo ben esiguo rispetto alla somma dei tempi che sarebbero richiesti per
ogni singola decompressione al termine di una serie di immersioni di
intervento capaci di coprire la esigenza lavorativa sul fondo .
LA CAMPANA SUBACQUEA
Storia ed evoluzione di un concetto.
La campana subacquea è al tempo stesso l'elemento storicamente più
rappresentativo della evoluzione delle tecniche di intervento subacqueo e
l'elemento tecnologicamente più significativo dei metodi moderni e
industriali di attuazione di questo intervento per fini esecutivi e di
lavoro sottomarino .
Quello della campana è il concetto più semplice e intuitivo per portare
sott'acqua l'uomo mantenendogli intorno una adeguata bolla d'aria che gli
consenta di respirare e di restare in immersione per tempi ben superiori a
quelli dell'apnea. La tradizione vuole che il concetto più che dalle
inevitabili constatazioni elementari di fisica sperimentale sia derivato
dalla osservazione del comportamento di un ragno (argironeta , Argyroneta
aquatica ) che si costruisce negli stagni per mezzo della ragnatela una
vera e propria campana subacquea costituita da una bolla d'aria che gli
consente di respirare rimanendo sott'acqua. Già Aristotele nel 360 a.C. (q.v.Problemata
960b 32) aveva parlato di un sistema del genere usato dai pescatori di
spugne per potere prolungare la permanenza in immersione . Il termine
usato da Aristotele è "lebete" (gr. λέβης,λέβητος) il cui significato nel
linguaggio corrente corrisponde a caldaia, grossa pentola, vaso o simile.
Non appaiono altri riferimenti nella letteratura fino al 1250 , quando
Roger Bacon nella sua opera "Novum Organum" menziona la leggendaria
impresa di Alessandro Magno che attorno al 332 a.C si sarebbe fatto calare
in mare all'interno di una campana fatta costruire appositamente per
osservare e conoscere il mondo sottomarino. La leggenda di Alessandro fu
variamente ripresa con distorsioni e orpelli immaginari di ogni tipo , ma
è rimasta emblematicamente conservata nella tradizione per rappresentare
la invenzione della campana di immersione . Tra le tante versioni ne
esiste una etiope , improntata al misticismo cristiano , che raffigura
Alessandro come devoto cristiano ante litteram , ne compare una araba
scritta nel settimo secolo d.C. , se ne trova una francese del 1250 con
miniatura seguita da un'altra del millequattrocento corredata da una
artistica miniatura che raffigura Alessandro , in armatura medioevale ,
all'interno di una campana di vetro . La successiva citazione storica di
rilievo e soprattutto di affidabilità descrittiva viene fornita da
Francesco de Marchi (1490 - 1574) che nella sua opera "Dell' Architettura
Militare" (scritta attorno alla metà del XVI° secolo ma pubblicata la
prima volta nel 1599 a Brescia e successivamente ristampata a Roma nel
1810) , nella quale descrive le caratteristiche strutturali e funzionali
di 161 sistemi di fortificazione , fornisce dettagli descrittivi del
sistema ideato e costruito da Guglielmo de Lorena per localizzare le navi
romane affondate nel lago di Nemi . Su queste navi , che costituivano
secondo la leggenda la testimonianza di una delle tante stravaganze
dell'imperatore Caligola , la tradizione affermava trovarsi un notevole
tesoro .Dopo innumerevoli infruttuosi tentativi di localizzare i relitti
delle due navi che pur non essendo destinate alla navigazione ma a fungere
da palazzi galleggianti erano state realizzate secondo i migliori criteri
costruttivi dell'epoca, Lorena realizzò il suo sistema costituito da un
piccolo tino di legno alto circa un metro col diametro di sessanta
centimetri e con un oblò di vetro . Date le dimensioni,il sistema fungeva
più da casco aperto che da campana in quanto incorporava il capo e il
tronco dell'operatore consentendogli di camminare sul fondo e di
deambulare mantenendosi addosso la struttura .La prima applicazione
operativa del sistema di Lorena avvenne nel 1531 e consentì la
localizzazione dei relitti prima d'ora rimasti irraggiungibili per i
sommozzatori in apnea. Successivamente, nel 1535 , il sistema venne
utilizzato nuovamente nel tentativo di rilevare posizione e dimensioni di
uno dei due relitti . De Marchi afferma che l'operatore rimase sott'acqua
per un'ora , ma per il vincolo di una promessa che lo legava all'inventore
non rivela nel suo testo come l'aria all'interno della campana venisse
rigenerata e reintegrata periodicamente . In ogni caso si può affermare
che quella costruita da de Lorena risulta la prima campana storicamente
documentata descrittivamente nelle caratteristiche e nell'impiego. Nel
1538 due greci si esibirono in Toledo davanti all'imperatore Carlo V con
una campana di loro costruzione che permetteva di scendere sott'acqua e di
riemergere con una candela mantenuta accesa all'interno della campana
stessa . La descrizione dell'episodio viene data da Joannes Taisnieri
Hannoni nel suo "Opusculum de motu celerrimo" stampato in Colonia nel
1562. Nel 1551 il celebre matematico Niccolò Fontana(1500?/1557), meglio
noto come Niccolò Tartaglia pubblicò un trattato ("Regola generale de
solevare...ogni affondata naue", Venezia 1551) sulle tecniche di recupero
e sollevamento di navi affondate e in esso viene descritta una campana
costituita da un telaio di legno entro il quale è contenuta una cupola di
vetro capace di accogliere il capo e forse le spalle dell'operatore ,
mentre alla base e alla struttura del telaio è collegata una zavorra che
tramite un cavo e un arganello a mano permette all'operatore di fare
salire o scendere la campana senza dipendere dalla superficie. Ragionevoli
dubbi possono sussistere sulla reale efficacia di questo sistema che non
poteva consentire più di pochi minuti di permanenza all'operatore su un
fondale proporzionalmente limitato, ma non si possono esprimere critiche
negative alla introduzione di concetti geniali che anni più tardi
troveranno efficace applicazione operativa . In un secondo progetto dello
stesso Tartaglia la campana viene concepita abbastanza larga per contenere
tutto l'operatore. Un anno più tardi , nel 1552 , una esibizione simile a
quella di Toledo del 1538 fu tenuta da alcuni pescatori dell'Adriatico
davanti al Doge e ai senatori di Venezia con una campana di circa tre
metri di altezza e diametro con la quale fu raggiunta una permanenza di
due ore in immersione Nel 1595 a Venezia viene stampata l'opera di Fausto
Wranczy ( latinizzato in Veranzio) di Sebenico che sotto il titolo di "Machinae
Novae" descrive , tra molti altri sistemi , una campana da immersione .
Pochi anni più tardi , nel 1597 , Buonajuto Lorini pubblica in Venezia la
sua opera "Delle Fortificationi" includendovi la descrizione di una
campana da immersione in legno a struttura squadrata prossima a un
parallelepipedo con finestre di vetro . Il sistema veniva alzato o
abbassato mediante una cima passante attraverso una puleggia montata sulla
sommità e funzionante secondo il principio della carrucola mobile (i.e.
carrucola del muratore) . Franz Kessler nel 1616 progettò una campana
improntata agli stessi concetti di quella di Lorena , ma più ampia e lunga
tanto da arrivare a coprire le caviglie dell'operatore pur rimanendo un
sistema individuale e portatile che consentiva all'utilizzatore di
deambulare sul fondo marino . Una serie di finestrini rotondi di vetro
consentiva all'operatore di guardare all'esterno su un orizzonte circolare
, mentre la struttura complessiva del sistema porta a pensare che non vi
fossero altre funzioni pratiche oltre a quella meramente ispettiva e di
osservazione. Nel 1665 risulta che una campana di ridotte dimensioni ,
tale da potere essere utilizzata da un solo uomo, sia stata impiegata per
recuperare tre pezzi di artiglieria e altri reperti dal relitto di una
nave spagnola, la "Duque di Florencia" affondata il 15 Novembre 1588 per
la esplosione della santa barbara nella baia di Tobermory in Scozia presso
l'isola di Mull. La campana , della quale compare una descrizione nelle
opere di George Sinclair "Ars nova et magna gravitatis et levitatis"
(Rotterdam 1669) e "The Hydrostaticks" (Edinburgo 1672) e appare anche un
disegno nell'opera "Collegium experimentale" di Sturmius del 1676 , aveva
la tipica sagoma a pera ed era dotata di una piattaforma sottostante ,
sostenuta da catene , sulla quale posava i piedi l'operatore . Il peso
della campana era di 260 libbre e quello della piattaforma di circa 130 .
Altre immersioni , probabilmente con la stessa campana , furono compiute
sul relitto tra il 1680 e il 1683 e altre ancora negli anni successivi .
Nello stesso periodo da un medico di Lione , certo Panthot , viene
pubblicato ("Journal des Scavans" del 4 Aprile 1678) il resoconto di una
operazione analoga compiuta l'anno precedente nel porto di Cadice per
recuperare valori dai relitti di due navi affondate . La campana impiegata
risulta essere stata di legno , alta circa 13 piedi (3.9 m.) con un
diametro inferiore di 9 piedi (2,7 m.) e rinforzi di cerchiature di
metallo . Appese al bordo inferiore erano distribuite zavorre di ferro del
peso di 60 o 80 libbre ciascuna. L'operatore stava seduto nel centro della
campana su una sbarra trasversale . Un rudimentale , ma indubbiamente
efficace , modello di campana di immersione venne usato tra il 1680 e la
fine del secolo da sir William Phipps nella ricerca e nel recupero di
considerevoli valori dai relitti delle navi spagnole affondate nelle acque
dell'America centrale , ma in pratica nessuna descrizione accurata del
sistema è giunta fino a noi . Nel 1689 il noto fisico francese Denis Papin
introdusse un concetto fondamentale e innovativo ("Acta Eruditorum" ,
Leipzig , Settembre 1989 , p. 485) suscettibile di potenziare notevolmente
la efficacia e la capacità di impiego delle campane che fino ad allora
erano state utilizzate con la sola aria che restava imprigionata al loro
interno al momento della immersione . Papin suggeriva che si dovesse
provvedere per mezzo di pompe , mantici o soffietti , a insufflare aria
all'interno della campana immersa ottenendo così il duplice risultato di
mantenere un livello costante di svuotamento dall'acqua fino al bordo
inferiore indipendentemente dalla profondità raggiunta e di conservare la
respirabilità dell'aria interna indipendentemente dal tempo di permanenza
dell'operatore o degli operatori in immersione . Sebbene non esistano
documenti della avvenuta costruzione e dell'effettivo impiego da parte di
Papin di una campana di questo tipo , la introduzione dei concetti
fondamentali e innovativi ispirati dal fisico francese costituisce un
notevole passo in avanti destinato a consolidare negli anni successivi le
tecniche di immersione . Un analogo passo in avanti in termini tecnologici
venne segnato l'anno dopo da Edmund Halley , più noto per le sue scoperte
astronomiche che per la fisica subacquea , il quale nel 1690 progettò e
costruì una campana di grosse dimensioni nella quale per mezzo di barili
che venivano calati dalla superficie era possibile introdurre nuova aria
ottenendo così gli stessi risultati che Papin si prefiggeva di ottenere
con pompe e mantici dalla superficie. I barili che alimentavano la campana
di Halley erano appesantiti con centinature di piombo e avevano due
orifizi, uno sulla sommità e uno sul fondo . L'orifizio sul fondo era
aperto e libero, mentre quello superiore era collegato a un tubo di pelle
impermeabilizzata, lungo due o tre metri e appesantito con una zavorra di
piombo alla sua estremità libera. Mentre il barile veniva calato dalla
superficie l'aria al suo interno si comprimeva per effetto della pressione
ambientale e l'acqua saliva progressivamente attraverso l'orifizio
inferiore, mentre il tubo di pelle che chiudeva l'orifizio superiore si
trovava con la estremità distale tirata verso il basso dalla zavorra di
piombo e non consentiva all'aria di sfuggire. Quando il barile si trovava
in prossimità della campana, leggermente sotto di essa, l'operatore
raccoglieva la estremità del tubo infilandola nella campana e
sollevandola; a questo punto la pressione idrostatica faceva entrare acqua
dal fondo del barile svuotandolo dell'aria che entrava totalmente nella
campana. Con un analogo tubo di pelle impermeabilizzata era possibile
consentire la respirazione ad un operatore che usciva dalla campana,
mantenendosi rigorosamente alla sua quota, con un casco che gli copriva
capo e spalle. La campana di Halley, pur nella genialità delle sue
concezioni realizzative, si rivelava pesante e ingombrante e difficilmente
manovrabile se non con il supporto di mezzi navali di grosse dimensioni e
di appropriato personale. Negli anni successivi seguirono diversi progetti
e realizzazioni, troppo numerosi per essere considerati tutti
analiticamente, ma degni di menzione per qualche particolare aspetto
innovativo o qualche concezione geniale. In Svezia, nazione che tra
l'altro reclama invenzioni e progetti in tema di campane di immersione già
dai tempi di Sturmius e del galeone di Tobermory, comparvero le campane di
Martin Triewald (1728) e di Hammar (1774), in Francia la campana di Dalmas
(1774) costruita con pelle e cuoio su telaio di legno con seri dubbi sulla
sua affidabilità ed efficacia. Nel regno unito apparvero i progetti di
Spalding (1775) che partendo dai concetti di Halley li volle perfezionare
rendendoli più versatili, maneggevoli, sicuri e controllabili dagli
operatori anzichè dalla superficie e di Smeaton (1788 e 1790) che applicò
i concetti di Papin. Spalding annegò in una delle sue campane nel 1783 ,
Smeaton ebbe miglior fortuna e il suo nome è legato alla realizzazione di
numerose opere di ingegneria marina (e.g. faro di Eddystone costruito nel
1759 e mantenuto fino al 1882, fondazioni del ponte di Exham nel
Northuberland nel 1788, strutture del porto di Ramsgate nel 1790, etc.)
nonchè alla costruzione di campane adeguate agli interventi subacquei per
tali opere. Le campane ideate e introdotte da Smeaton erano concepite per
lavori di ingegneria portuale a profondità relativamente limitata ed erano
dotate superiormente di un sistema di pompa capace di immettere aria a
pressione all'interno della campana mantenuta con la sua porzione apicale
emersa. Le campane di Smeaton, ampie e di forma squadrata, erano
utilizzate in pratica come cassoni pneumatici per la esecuzione di opere
portuali e per interventi legati alle attività portuali. Le idee e i
concetti di Smeaton furono ripresi da James Rennie che nel 1812 intervenne
attivamente nei lavori del porto di Ramsgate con una campana alla quale
aveva conferito la capacità di spostamento e traslazione mediante un
sistema di carro ponte al quale era sospesa. In pratica a questo punto la
campana subacquea aveva raggiunto la maturità concettuale e la
configurazione di base che le permettevano di affrontare il successivo
determinante salto tecnologico verso la configurazione attuale di modulo
di trasporto e supporto nell'intervento iperbarico profondo. Per qualche
decennio la campana rimase concettualmente legata a interventi poco
profondi, prevalentemente in aree portuali dove veniva impiegata in
concomitanza o alternativa ai cassoni pneumatici, poi lo sviluppo delle
tecniche di immersione con scafandro elastico diede spazio per
applicazioni destinate a conferirle la spinta verso la utilizzazione in
alti fondali. Infatti la diffusione degli interventi lavorativi con
palombari a scafandro elastico su relitti anche profondi rendeva di
estrema attualità il problema della decompressione dell'operatore al
termine della immersione. Poichè la decompressione in acqua presentava
problemi di agio, comodità e sicurezza per il palombaro e di gestione
dell'equipaggiamento per il cantiere che doveva attendere la riemersione
del palombaro al termine della decompressione prima di potere destinare le
attrezzature (i.e. manichetta, braga, casco e pompa) alla discesa del
successivo palombaro, la campana venne reintrodotta per semplificare e
rendere più sicure queste procedure. Nel 1928 Sir Robert H. Davis progettò
la camera di decompressione sommergibile (Submersible Decompression
Chamber) nella forma di una campana che potesse fornire un valido supporto
al palombaro al termine della immersione e al momento di affrontare la
risalita e la decompressione. In pratica la procedura di decompressione
consisteva nel fare trovare, al termine della immersione del palombaro, la
campana alla profondità corrispondente alla quota della prima tappa di
decompressione. A questo punto il palombaro poteva introdursi col busto
nella campana , liberarsi del casco con l'aiuto di un assistente che si
trovava già all'interno della campana stessa, entrare completamente in
campana e rimanervi, dopo la chiusura del portello, mentre la campana
veniva recuperata a bordo della nave appoggio, sempre conservando
all'interno la pressione della profondità di chiusura del portello. Una
volta a bordo della nave appoggio la campana diveniva una vera e propria
camera di decompressione all'interno della quale il palombaro poteva
compiere, insieme all'assistente, la regolare decompressione mentre in
acqua proseguiva con regolarità il lavoro ad opera di altri palombari.
Questa innovazione da un lato conferì alla campana una nuova fisionomia e
una accresciuta versatilità di impiego poichè la apposizione del portello
interno la rendeva suscettibile di operare tanto in equipressione con
l'ambiente circostante quanto in iperpressione rispetto allo stesso,
mentre dall'altro creò i presupposti per la nascita dell'impianto di alto
fondale e la integrazione operativa di campana e camera di decompressione.
Da quel modo di impiego della campana come camera di decompressione per il
palombaro è rimasta la definizione anglosasassone di SDC (Submersible
Decompression Chamber) che ancora oggi viene spesso usata per indicare la
campana di immersione anche se la sua funzione è quella di mera capsula
pressurizzata di trasporto degli operatori tra la superficie il fondo e
non più di modulo di decompressione in superficie. Il passo evolutivo
successivo, tra la fine degli anni "20 e i primi anni"30, fu rappresentato
dalla integrazione della campana e di una camera di decompressione vera e
propria sul ponte della nave appoggio in modo che il palombaro potesse
transitare, dopo l'accoppiamento dei due moduli, dalla campana alla camera
di decompressione e la campana ridiventasse libera e disponibile per la
risalita del successivo palombaro. Nel 1931 Sir Robert H.Davis progettò la
camera di decompressione da ponte a tre compartimenti (Deck Decompression
Chamber) destinata ad accoppiarsi alla SDC alla sua riemersione per
consentire il trasferimento degli operatori sotto pressione e liberare la
SDC stessa per l'impiego successivo mentre gli operatori completavano la
decompressione all'interno della camera da ponte . Inoltre si pensò di
introdurre un doppio sistema di portelli, uno interno e uno esterno,
rendendo così possibile la utilizzazione della campana tanto in
iperpressione (portello interno chiuso) quanto in ipopressione (portello
esterno chiuso) rispetto all'ambiente circostante. Con la integrazione
della campana (SDC) e della camera di decompressione chiamata DDC (Deck
Decompression Chamber) poteva considerarsi concettualmente nato l'impianto
di alto fondale che ancora oggi nelle sue linee strutturali essenziali è
articolato sui due elementi fondamentali campana e camera. In pratica ,per
alcuni decenni, non vi furono sostanziali perfezionamenti evolutivi nella
struttura e nella fisionomia funzionale della campana fino alla fine degli
anni "60 con la nascita delle tecniche di immersione in alto fondale e in
saturazione. Il perfezionamento delle tecniche costruttive rese possibile
il passaggio dalla struttura cilindrica a quella sferica dettata dal fatto
che la sfera è il solido geometrico che possiede il massimo volume
rapportato alla minima superficie e conseguentemente meglio si presta a
resistere alla pressione esterna.
Una menzione a parte va dedicata alle campane a pressione atmosferica alle
quali tradizionalmente sono state assegnate denominazioni diverse (i.e.
torretta butoscopica , submarine observation chamber , batisfera) e che
sono concepite per operare solo con pressione atmosferica all'interno
indipendentemente dalla profondità alla quale si trovano. La loro storia è
altrettanto avvincente e complessa quanto quella delle campane subacquee e
va dagli ingenui e sfortunati tentativi di John Day (1773) e dello
spagnolo Cervo (1831) che annegarono nello sfondamento dei loro involucri
di legno in poche decine di metri di profondità ai più razionali sistemi
costruiti da Bazin (1865) , Balsamello (1889) , Piatti del Pozzo (1897)
posti in esercizio con qualche risultato fino alla batisfera di Beebe che
discese a 434 m. (1,426 piedi) nel 1930 e a 923 m. (3,028 piedi) nel 1934.
Le torrette butoscopiche degli anni "30 consentirono la effettuazione di
diversi lavori di recupero grazie all'operatore che dall'interno guidava
con istruzioni telefoniche la manovra di una benna a polipo calata dalla
superficie. In tempi più recenti campane di questo tipo sono state dotate
di manipolatori e utensili e hanno operato, prima dell'avvento dei veicoli
telecomandati , in compiti esecutivi anche complessi (e.g.apertura/chiusura
di valvole , taglio di cavi e lamiere , installazione di strutture , etc.)
a grande profondità.
Tecnologia moderna e tecnica di operazione.
La campana subacquea moderna rappresenta oggi l'elemento di impiego
fondamentale negli interventi iperbarici in alto fondale e la sua
evoluzione strutturale e funzionale la ha portata a trovare diverse altre
applicazioni tanto nel basso fondale quanto nella immersione profonda a
pressione atmosferica. Nei tempi recenti del secondo dopoguerra la campana
è stata inizialmente utilizzata come camera di decompressione sommergibile
per operatori subacquei dotati di autorespiratore autonomo in immersioni
particolarmente profonde e protratte , esattamente come avveniva per i
palombari negli anni "30. Successivamente si è passati ad utilizzarla come
supporto subacqueo degli operatori che vi rimanevano vincolati mediante un
ombelicale beneficiando così di maggiore sicurezza e di una erogazione
teoricamente illimitata di miscela respiratoria. L'avvento delle tecniche
di saturazione , per le immersioni più profonde e prolungate , tra la
seconda metà degli anni "60 e l'inizio degli anni "70 consacrò di fatto
l'impiego della campana in tutte le sue possibilità di uso tanto in ipo
quanto in iperpressione come modulo di trasporto degli operatori da e per
il fondo e come supporto subacqueo al lavoro che doveva venire eseguito in
tempi prolungati con la necessità di disporre di illuminazione, utensili
idraulici , consistente riserva respiratoria e riscaldamento. Già tra la
seconda metà degli "50 e l'inizio degli anni "60 , la campana di tipo
cilindrico strettamente analogo a quello utilizzato dai palombari
nell'intervallo tra i due conflitti mondiali , trovava crescente
applicazione di impiego in appoggio ai sommozzatori con autorespiratore
autonomo che effettuavano immersioni lavorative profonde e al termine
della autonomia degli autorespiratori entravano in campana per utilizzarla
in risalita e in decompressione. Tuttavia in questo modo la campana si
trovava praticamente limitata nel suo potenziale di impiego di modulo di
trasporto e di supporto iperbarico agli operatori per tutta la durata del
loro intervento , dalla discesa alla risalita. Bisognava arrivare alla
prima metà degli anni "60 perchè questo potenziale cominciasse a venire
percepito e applicato in tutti i suoi risvolti. Le crescenti esigenze
della nascente industria per la estrazione degli idrocarburi in mare che
muoveva i suoi primi passi profondi oltre i limiti della immersione ad
aria compressa e le acquisizioni della fisiopatologia iperbarica ormai
matura per l'impiego diffuso delle miscele heliox e la realizzazione
operativa del concetto di "saturazione" crearono il sinergismo necessario
per conferire la spinta decisiva al grande passo e la campana iperbarica
si presentava come il solo mezzo applicabile per il trasporto degli
operatori dalla superficie al fondo e viceversa e per il loro mantenimento
in condizioni di pressurizzazione controllata . Si trattò in pratica di
una vera e propria riscoperta della campana iperbarica come SDC
tradizionale (Submersible Decompression Chamber) e come valido utensile
per le operazioni commerciali. Nel maggio del 1962 nella baia di Ognina
(Siracusa) venne provato e collaudato il "cilindro" di Edwin A. Link
costruito appositamente per la realizzazione della prima fase del progetto
Man in the Sea , destinato a consentire all'uomo la conquista delle lunghe
permanenze in profondità . Nel mese di Settembre di quello stesso anno ,
nella baia di Villefranche sur Mer , sulla Costa Azzurra , venne
realizzata una immersione prolungata alla profondità di 200 piedi (60
metri) da Robert Stenuit che vi permase per 25 ore respirando miscela elio
ossigeno (heliox) ed effettuando quindi una decompressione di 58 ore
all'interno del cilindro stesso che era stato recuperato a bordo della
nave appoggio e posato orizzontalmente sulla coperta per servire da camera
di decompressione. Il "cilindro" di E.A.Link , costruito in lega di
alluminio e attualmente conservato nel museo di Miami , pesa due
tonnellate e settecento chilogrammi e ha una lunghezza di tre metri e
quindici centimetri con un diametro interno di novanta centimetri . E'
diviso in due parti distinte , una lunga 1.90 m. che costituisce
l'abitacolo vero e proprio e che è situata superiormente e una lunga 1 m.
situata inferiormente e destinata a servire come vano di transito nelle
operazioni subacquee e come vano passaoggetti durante la decompressione
sul ponte della nave appoggio. Per questo motivo esistono tre portelli ,
due alla base del cilindro con funzione rispettivamente di portello
interno (iperpressione interna) e di portello esterno (iperpressione
esterna) e uno alla base dell'abitacolo destinato a operare solo con
condizioni di iperpresione interna dell'abitacolo rispetto al vano di
transito. Tre oblò inclinati disposti a 120° danno all'abitacolo la
necessaria visibilità verso l'esterno , mentre un quarto oblò si apre nel
vano di transito . Il cilindro è dotato di un verricello con il quale può
autonomamente alzarsi e abbassarsi sulla zavorra di fondo che ne
costituisce il corpo morto di ancoraggio. Tutto il resto (energia
elettrica, gas respiratorio, comunicazioni telefoniche, etc.) è fornito
dalla superficie tramite cavi , manichette e ombelicali che si inseriscono
sulla sommità del cilindro tramite appositi passaggi scafo. Nel corso
dello stesso anno al largo delle coste Californiane , di fronte a S.
Catalina , un'altra campana iperbarica , chiamata Atlantis , venne usata
per una discesa fino alla profondità di 1,000 piedi (300 metri). L'impresa
, un vero e proprio primato , si tradusse però in tragedia in quanto uno
dei due operatori , il giornalista Peter Small morì nel corso della
risalita insieme a uno dei sommozzatori si appoggio , Chris Wittaker .
L'ideatore della impresa , lo svizzero Hannes Keller , sopravvisse alla
immersione la cui tragica conclusione era stata provocata da un bordo
della pinna dello stesso Keller rimasta tra la soglia e il portello della
campana quando questo era stato chiuso al rientro dello stesso Keller
dalla sua fuoriuscita sul fondo . In fase di risalita della campana la
pinna rimasta tra il bordo del portello e la soglia aveva provocato una
fuga di gas e una caduta della pressione interna causando lo svenimento
dei due operatori e il successivo decesso di Small. Queste operazioni ,
pur segnando valide e significative tappe nella conquista delle profondità
marine e della capacità umana a soggiornare per tempi prolungati in
iperpressione non avevano le caratteristiche delle vere e proprie
operazioni commerciali dotate di diretto risvolto applicativo. Dalle
immersioni sperimentali si svilupparono le diverse operazioni di vita
sotto il mare (e.g. Man in the sea , Conshelf , Sea Lab , etc.) che
permisero di realizzare concretamente il progetto del capitano medico
George Bond della US Navy per la permanenza di operatori subacquei in
saturazione . Questo progetto consentì poi , a partire dall'inizio degli
anni "70 , concrete ed effettive ricadute tecnologiche che permisero agli
impianti di immersione profonda e alle campane di immersione di esplicare
tutto il loro potenziale operativo per le esigenze della industria
offshore.
Nel 1963 , con il preciso scopo di fornire uno strumento di intervento
subacqueo all'industria degli idrocarburi , venne progettata e costruita
la "Purisima" , una campana composta da due sfere sovrapposte ideata da
Dan Wilson e Jon Lindbergh della Deep Submergence Systems . La Purisima fu
costruita per gli interventi subacquei sulle teste pozzo dei giacimenti di
idrocarburi al largo della California . Le due sfere erano dotate di
portello di separazione e potevano essere pressurizzate indipendentemente
. La sfera inferiore era sempre e comunque occupata dall'operatore
iperbarico destinato alla fuoriuscita per la esecuzione del compito
lavorativo esterno , la sfera superiore poteva venire occupata da un
ingegnere o da un supervisore che in tale caso restavano in ambiente a
pressione atmosferica a dirigere mediante il telefono gli interventi
dell'operatore esterno , oppure da un altro operatore iperbarico che , in
caso di bisogno , poteva pressurizzare la sfera , aprire il portello di
comunicazione con la sfera sottostante e uscire in appoggio al primo
operatore per lavori particolarmente gravosi o impegnativi . La discesa
avveniva con l'interno a pressione atmosferica e il portello chiuso e la
pressurizzazione veniva compiuta sul fondo al momento di uscire dalla
campana . La decompressione avveniva all'interno della campana utilizzata
quindi in tutto e per tutto come una SDC. Il concetto di campana a doppio
modulo espresso con la realizzazione della Purisima fu ripreso negli anni
immediatamente successivi dalla Strongwork/Divecon che realizzò la campana
"Seatask" per interventi fino a 180 metri di profondità , dalla Galeazzi
che costruì il suo "ODS" (Offshore Diving Shelter) composto da una camera
di decompressione per palombaro accoppiabile a un modulo sferico a
pressione atmosferica , dalla Comex che compose il doppio modulo "Castore
e Polluce". Il passaggio pratico ed effettivo al concetto di camera di
decompressione fissa in superficie accoppiabile ad una campana di
immersione che assumeva il semplice ruolo di modulo di trasferimento tra
la superficie e il fondo , così come era stato concepito da Sir Robert
Davis nel 1931 , trovò realizzazione per l'industria degli idrocarburi
solo nel 1965 quando la Taylor Diving and Salvage Company realizzò il
sistema di immersione profonda MARK DCL . Il sistema comprendeva una
camera di decompressione da ponte o DDC (Deck Decompression Chamber) lunga
26 piedi (7.8 m.) , del diametro di 7 piedi (2.1 m.) capace di alloggiare
6 operatori e dotata di un vano di trasferimento e accesso per il
collegamento alla campana e di una bussola pressurizzabile di passaggio
per cibo e oggetti (food lock) . Inoltre in ambiente iperbarico erano
disponibili i servizi igienici , la doccia e il lavabo. La campana , ora
non più chiamata SDC (Submersible Decompression Chamber) , ma
opportunamente ribattezzata PTC (Personnel Transfer Capsule), aveva forma
cilindrica alta 8 piedi (2.4 m.) col diametro di 5 piedi (1.5 m.) e si
accoppiava con la DDC mediante una flangia situata alla sua estremità.
All'interno della campana trovavano posto comodamente due operatori e
venivano mantenuti due ombelicali della lunghezza di circa 30 m. ,
sufficienti per raggiungere il punto di lavoro in prossimità della campana
. La campana, in se stessa dotata di spinta di galleggiamento, disponeva
di una zavorra ancorata inferiormente per mezzo di un doppio cavo o catena
che le permetteva di flottare due o tre metri sopra il fondo svincolandosi
dal cavo di sospendita e non risentendo così delle oscillazioni generate
dal moto ondoso sul mezzo navale di appoggio. Il sistema Originale MARK
DCL fu usato per la prima volta nel 1965 per compiere interventi a 90
metri di profondità nel Golfo del Messico . Nella tarda estate del 1965 fu
condotta la prima saturazione per operazioni a scopo commerciale per
rimpiazzare strutture sommerse alla diga della Smith Mountain in Virginia
. Utilizzando un sistema di immersione della Westinghouse chiamato "Cachalot"
vennero effettuate permanenze degli operatori alla profondità equivalente
di 60 metri fino a cinque giorni e con lo stesso sistema nell'anno
seguente (1966) fu compiuta la prima saturazione nel Golfo del Messico per
rimuovere due strutture artificiali a otto gambe della Gulf Oil Company
che erano state demolite dall'uragano Betsy con una profondità di lavoro
di 72 metri. Nel Giugno dell'anno seguente (1967) in occasione del
"Progetto 600" della Westinghouse lo stesso systema di immersione Cachalot
consentì interventi alla profondità di 180 metri (600 piedi) con tecniche
di saturazione . Il successivo gradino fu raggiunto da tre operatori Comex
che nel 1970 scesero a operare alla profondità di 252 metri (840 piedi) e
successivamente, nel 1975 , altri operatori Comex lavorarono a 320 metri
(1,069 piedi) in mare aperto per recuperare un BOP (Blowout preventer).
Accanto a questi primati stabiliti per esigenze particolari e affermatisi
come pietre miliari della conquista delle profondità nella immersione di
lavoro per la industria numerosi furono gli interventi con tecniche di
saturazione compiuti a partire dai primi anni "70 tra 90 e 150 metri di
profondità. In tutti questi casi la campana assolveva la funzione di
modulo di trasporto degli operatori tra la superficie ed il fondo e di
supporto subacqueo per l'operatore esterno che veniva assistito
costantemente dal collega rimasto all'interno della campana . La sagoma
stessa della campana subì sostanziali modifiche e dalle campane
cilindriche degli anni "60 , comode e spaziose , si passò progressivamente
negli anni "70 alle campane sferiche , probabilmente meno comode e
spaziose per l'operatore , ma indubbiamente più vantaggiose in termini
economici (ridotto volume interno e ridotto quantitativo di gas necessario
alla pressurizzazione) e in termini pratici (minore ingombro , minore
peso). Infatti la sfera è il solido geometrico che offre il maggior volume
interno rapportato alla minima superficie esterna e questo in termini
ingegneristici progettuali di calcolo degli spessori per la resistenza
alla pressione costituisce un vantaggio del quale la industria non si potè
avvalere fino a quando non furono raggiunte le capacità tecnologiche di
costruzione di una sfera mediante saldatura di spicchi sferici. Ancora
oggi , sebbene molti operatori siano ben contenti di potere utilizzare
quando capita una delle campane cilindriche ancora in servizio , la
maggioranza degli impianti di immersione di alto fondale dispone di una
campana sferica . Nel corso degli anni si sono evoluti diversi modelli di
campana iperbarica che rispecchiano in linea di massima i medesimi
concetti progettuali e rispondono in genere alle medesime esigenze di
consentire la immersione a due operatori o eventualmente a tre per i casi
particolari di intervento esterno che deve essere svolto da due operatori
simultaneamente.
Le caratteristiche fondamentali che si riscontrano in tutte le campane
iperbariche facenti parte di un impianto di alto fondale possono essere
così riassunte:
- doppio portello (interno/esterno) per consentire la situazione di
ipopressione interna (discesa a pressione atmosferica per immersione di
intervento , immersione di osservazione a pressione atmosferica) o di
iperpressione interna (discesa negli interventi in saturazione , risalita
in superficie al termine della immersione).
- zavorra di emergenza sganciabile dall'interno per consentire la risalita
libera della campana dopo avere provveduto al rilascio del cavo di forza
(sgancio comandabile dall'interno) e alla separazione dell'ombelicale
(sistema tagliaombelicale comandato dall'interno).
- bombole di emergenza contenenti una sufficiente quantità di gas (miscela
heliox , aria compressa , ossigeno metabolico) nel caso di perdita
dell'ombelicale campana .
- zavorra guida che mantenga l'assetto della campana e consenta la
distanza dal fondo per garantire libertà di movimento e passaggio
dell'operatore in fuoriuscita o rientro attraverso il portello inferiore.
- ombelicale composito dotato di tutti gli elementi che convogliano dalla
superficie le necessarie alimentazioni e inviano alla superficie le
informazioni batimetriche e le comunicazioni (due linee mandata gas ,
linea acqua calda , comunicazioni , manometro interno campana , manometro
esterno campana , pneumofatometro operatore , coassiale telecamera ,
energia elettrica ).
Nel corso degli anni la sicurezza e la comodità degli operatori sono state
particolarmente curate , adeguando a questo scopo le caratteristiche
strutturali e funzionali delle campane iperbariche che si trovano oggi
arricchite di dotazioni e sistemi di emergenza e sicurezza fino ad una
decina di anni or sono sconosciuti o ben raramente presenti. Fra questi i
più caratteristici e importanti sono rappresentati da :
- vano passaoggetti (medical lock) che consente il passaggio di medicinali
, cibo e utensili all'interno della campana quando questa è pressurizzata
con gli operatori all'interno e non collegata alla DDC,
- dotazione di sopravvivenza (survival kit) che include sistemi di
protezione termica passiva (sacco termico,guanti,telo termoriflettente) da
utilizzare nel caso di perdita dell'ombelicale e delle alimentazioni dalla
superficie ,
- batterie di emergenza(emergency power pack) per garantire la
alimentazione elettrica essenziale nel caso di perdita delle alimentazioni
dalla superficie,
- telefono a ultrasuoni (through water communication system) per parlare
con la superficie in caso di avaria del telefono via cavo (hardwire
communication system) o di perdita dell'ombelicale ,
- transponder acustico (emergency bell locator) a doppia frequenza per la
localizzazione della campana nel caso di incidente e sua perdita per
taglio dell'ombelicale e del cavo di forza ,
- valvole e connettori esterni per collegare mandata di acqua calda e di
gas respiratorio alla campana se questa viene recuperata in emergenza e
posta su un mezzo navale di soccorso senza potere essere acoppiata a una
DDC adeguata,
All'interno della campana gli operatori regolano le mandate di gas di
pressurizzazione agendo su una valvola della quale hanno il controllo in
modo da potere regolare la velocità di compressione secondo le proprie
esigenze di compensazione, inoltre possono liberamente regolare la
temperatura e il fissaggio della anidride carbonica azionando
opportunamente i riscaldatori (radiatori ad acqua calda e resistenze
elettriche sui ventilatori dei filtri) e i ventilatori dei filtri di calce
sodata . Nei circuiti elettrici dell'interno campana vengono mantenute
tensioni basse (12 V) di corrente continua così scongiurando o riducendo
notevolmente i rischi di elettrocuzione , mentre all'esterno le lampade e
le eventuali altre utenze non destinate ad impiego da parte dell'operatore
sono governate da tensioni maggiori (e.g. 115 V). In genere la
alimentazione elettrica viene inviata dalla superficie tramite un variac
che alimenta un trasformatore a bagno d'olio all'esterno della campana il
quale a sua volta garantisce la appropriata tensione di sicurezza alle
utenze interne oltre a garantire la continua ricarica in tampone delle
batterie di emergenza.
Lo schema operativo di una campana è duplice e risponde ai due diversi
tipi di immersione che possono venire condotti : immersione da saturazione
(saturation diving) e immersione di intervento (bounce diving). Nella
immersione da saturazione gli operatori transitano all'interno della
campana che è in equilibrio con la DDC e si trova pertanto ad una
pressione assai prossima a quella del fondo . Effettuato il trasferimento
viene chiuso il portello interno e la campana si immerge con una netta
iperpressione interna che mantiene il portello chiuso. Poichè è la stessa
pressione che mantiene il portello ben chiuso le chiusure di sicurezza (hatch
dogs) vengono tenute libere . Quando la campana raggiunge la profondità
equivalente alla quota di saturazione, alcuni metri sopra la quota di
fondo, la pressione esterna prima equipara e poi supera la pressione
interna sollevando dolcemente il portello . A questo punto il portello
viene aperto completamente e il primo operatore può uscire , mentre il
secondo compensa con una leggera mandata di gas il volume lasciato libero
dall'operatore uscito riabbassando il menisco di separazione aria acqua.
Al termine della immersione l'operatore rientra , il portello viene
richiuso e la campana viene recuperata a bordo della nave appoggio con
all'interno la pressione equivalente alla quota di saturazione e può
conseguentemente essere accoppiata senza problemi alla DDC per consentire
il transito degli operatori ed il cambio con la nuova squadra di lavoro.
Nella immersione di intervento che ha lo scopo di limitare la permanenza
degli operatori in iperpressione al minimo indispensabile per non elevare
eccessivamente i successivi tempi di decompressione , la campana viene
calata sul fondo con il portello interno aperto e quello esterno chiuso e
all'interno viene mantenuta la pressione atmosferica. Quando la campana è
stata posizionata vicino al punto di lavoro l'operatore destinato alla
fuoriuscita si veste completamente e indossa il casco . A quel punto gli
operatori in campana aprono la mandata di gas pressurizzando l'interno con
la massima velocità possibile . Appena la pressione interna giunge a
eguagliare la pressione esterna il portello esterno , al quale sono state
preventivamente liberate le chiusure di sicurezza , si apre cadendo per il
suo stesso peso. L'operatore esce, esegue velocemente l'intervento e
rientra in campana senza perdere altro tempo. Al suo rientro la campana
viene sollevata , a portello aperto , fino alla quota corrispondente alla
prima tappa di decompressione . Qui viene chiuso il portello interno e la
campana viene sollevata in superficie e accoppiata con la DDC dove è nel
contempo stata raggiunta una equivalente pressione interna . Avviene il
transito degli operatori e la decompressione prosegue comodamente nella
DDC mentre la campana è disponibile per un'altra squadra di operatori.
Per le operazioni di messa a mare e di recupero la campana dispone
normalmente di un verricello per il cavo di sospensione e di un verricello
per l'ombelicale che viene agganciato a intervalli fissi al cavo di
sospendita per evitarne eccessive festonature o pericolosi sbandieramenti
in caso di corrente, inoltre vi sono spesso guide e riscontri per
facilitare la uscita dall'acqua in condizioni di mare mosso . Uno dei
sistemi più efficaci e sicuri per garantire stabilità alla campana è
quello della zavorra con i cavi guida . In questo caso, esemplificato
tipicamente dai sistemi di immersione della DRASS di Zingonia , viene
calata una zavorra di due o tre tonnellate mediante un cavo che ha una
estremità fissata in superficie a un sistema di tensionamento costante e
l'altra estremità mobile collegata ad un verricello . La zavorra , dotata
di due pulegge , scorre in pratica sul cavo come la carrucola del muratore
e mantiene sempre, per effetto dei due tratti di cavo che la sostengono un
assetto e un orientamento stabili anche in caso di corrente subacquea. La
campana , mediante due braccetti dotati di appositi manicotti , scorre
lungo i due tratti cavo come lungo due guide e può utilizzare la zavorra
come distanziatore (stand off frame) appoggiandosi eventualmente su di
essa e liberandosi dall'effetto del moto ondoso che viene trasmesso lungo
il cavo di sospensione.
Oltre alla campana iperbarica degli impianti di alto fondale negli ultimi
anni è stata reintrodotta per gli interventi in basso fondale la campana
classica aperta inferiormente e denominata con termini correnti campana
bagnata (wet bell) o campana aperta (open bottomed bell / open bell). In
pratica questa campana consiste nella moderna versione della classica
campana di Halley e può ospitare due operatori che restano con il busto
emerso in una bolla d'aria mantenuta sotto una calotta di metallo o di
plexiglas. Gli operatori dispongono di ombelicali e possono lavorare
singolarmente o insieme attuando la tecnica di immersione di intervento ed
effettuando poi decompressione in acqua all'interno della campana che
consente di togliere il casco e restare con la parte superiore del corpo
emersa. L'impiego di questo tipo di campana è necessariamente limitato al
settore di operazione del basso fondale e dell'aria compressa , ma
consente con sicurezza e comodità la effettuazione di interventi che
potrebbero essere scomodi e impegnativi se compiuti direttamente dalla
superficie con un ombelicale sottoposto all'effetto di corrente lungo
tutta la colonna d'acqua.
LA CAMERA IPERBARICA
(di COMPRESSIONE / DECOMPRESSIONE / RICOMPRESSIONE )
Storia ed evoluzione di un concetto.
La camera iperbarica, intesa come camera di decompressione fissa (DDC)
utilizzabile rispettivamente anche come camera di ricompressione
terapeutica o come camera di compressione, ha avuto una comparsa
concettuale e applicativa abbastanza tardiva rispetto alla campana di
immersione. Le prime camere per cassonisti e palombari sono comparse al
volgere della fine del secolo scorso nella forma e nella funzione di
camere di decompressione tardiva o di ricompressione terapeutica per
rispondere alle esigenze sottolineate dalle ricerche e dagli esperimenti
di P. Bert. E’ concordemente riconosciuto comunque che le prime camere per
ricompressione terapeutica a favore degli operai cassonisti siano state
impiegate nell’ambito di lavori pubblici da Sir Ernest MOIR, in qualità di
direttore dei lavori per il tunnel di attraversamento del fiume Hudson
condotti dalla ditta Pearson di Londra a partire dal 1893. Nello stesso
periodo cominciarono a diffondersi anche le prime camere sperimentali per
ricerca medica che, per il modo nel quale venivano usate, possono essere
considerate vere e proprie camere di compressione / decompressione. Le
camere per la decompressione dei palombari nacquero come camere fisse da
ponte nelle quali il palombaro veniva posto, al momento della riemersione,
per evitare l’insorgenza dei paventati sintomi della malattia da
decompressione o, nei casi più sfortunati, per curare tali sintomi dopo la
loro comparsa. Talmente lenta era tuttavia la svestizione del palombaro
dal casco, dal collare, dagli scarponi e dalle zavorre e comunque talmente
lento era il suo incedere verso la camera di ricompressione da vanificare,
nella maggior parte dei casi, la efficacia della procedura di
decompressione tardiva. Conseguentemente nel 1928 Sir Robert H. Davis
progettò la camera di decompressione sommergibile (Submersible
Decompression Chamber) nella forma di una campana che veniva fatta trovare
alla profondità corrispondente alla quota della prima tappa di
decompressione con un assistente che si trovava già all'interno. Una volta
a bordo della nave appoggio la campana diveniva una vera e propria camera
di decompressione all'interno della quale il palombaro poteva compiere,
insieme all'assistente, la regolare decompressione mentre in acqua
proseguiva con regolarità il lavoro ad opera di altri palombari. Da questa
modalità di impiego della campana come camera di decompressione per il
palombaro è rimasta la definizione anglosasassone di SDC (Submersible
Decompression Chamber) che ancora oggi viene spesso usata per indicare la
campana di immersione.
Camere fisse.
Il passo evolutivo successivo, tra la fine degli anni "20 e i primi anni
"30, fu rappresentato dalla integrazione della campana e di una camera di
decompressione vera e propria sul ponte della nave appoggio in modo che il
palombaro potesse transitare, dopo l'accoppiamento dei due moduli, dalla
campana alla camera di decompressione e la campana ridiventasse libera e
disponibile per la risalita del successivo palombaro. Nel 1931 Sir Robert
H.Davis progettò la camera di decompressione da ponte a tre compartimenti
(Deck Decompression Chamber) destinata ad accoppiarsi alla SDC alla sua
riemersione per consentire il trasferimento degli operatori sotto
pressione e liberare la SDC stessa per l'impiego successivo mentre gli
operatori completavano la decompressione all'interno della camera da
ponte. Nello sviluppo tecnologico e nell’adeguamento delle camere a sempre
migliori livelli di sicurezza, di affidabilità, di praticità di impiego e
di comodità degli operatori le camere si sono progresivamente arricchite
di dotazioni e di sottosistemi che oggi sembrano di ovvia presenza e di
istintiva concezione, ma che rappresentano singole e spesso faticose
acquisizioni tecnologiche dettate dalla pratica e dalla esperienza o
imposte dalla necessità sperimentata. Coibentazione termica, bussole
passaoggetti per il passaggio di cibi e bevande, telecamere, silenziatori
ai diffusori gas, sanitari, ventilatori e filtri, pannelli riscaldanti,
sono alcuni dei tanti particolari che caratterizzano e completano le
camere iperbariche moderne, soprattutto quando queste fanno parte di un
complesso iperbarico per interventi in alto fondale.
Camere portatili.
Il concetto di una camera di ricompressione terapeutica che potesse
fornire tempestivamente sollievo e terapia agli infortunati, pur
mantenendo caratteristiche di leggerezza e maneggevolezza e anche di
trasportabilità ha preso corpo in tempi proporzionalmente lontani dai
nostri giorni, al punto che già nel 1913 venne immessa sul mercato dalla
Dräger di Lubecca una camera di robusto tessuto rinforzata esternamente da
catene che ne contenevano la espansione. La reale diffusione delle camere
di questo tipo si manifestò comunque diversi anni più tardi, a partire
dall’inizio degli anni “60 quando, con la diffusione esplosiva della
immersione autonoma a fini sportivi, paraprofessionali e professionali
insorse la necessità di disporre di un sistema di pronta ricompressione e
di trasporto degli infortunati da qualsiasi posizione di mare anche aperto
al centro di ricompressione costiero più vicino, spesso distante molte ore
di navigazione. Alle camere portatili più diffuse (Dräger, Galeazzi, etc.)
si aggiunse nella seconda metà degli anni “70 la camera portatile IUC,
costruita in lega leggera e dotata di flangia universale di adattamento
che consentiva di evacuare per mezzo di un elicottero un operatore
infortunato o ferito da qualsiasi impianto di saturazione situato sui
mezzi navali del mare del Nord o di altre aree di intensa attività
industriale. Più recentemente lo sviluppo e la diffusione delle fibre
sintetiche ha riproposto camere portatili estremamente leggere e
facilmente trasportabili e riponibili il cui involucro è ispirato ai
concetti della prima camera Dräger di tessuto.
IL SIMULATORE DI IMMERSIONE
Il simulatore di immersione (wet & dry system, hyperbaric diving
simulator, hyperbaric test facilities, etc.) ha costituito per anni il
banco di prova e il teatro sperimentale per uomini, attrezzature, miscele
respiratorie e procedure di compressione e decompressione, prima che
questi potessero passare alla immersione reale in mare o comunque in acque
aperte. Uno dei primi veri e propri simulatori di immersione entrò in
servizio nel 1913 presso la Dräger di Lubecca con una capacità di
compressione di 20 bar e la possibilità quindi di simulare immersioni a
200 metri di profondità, largamente oltre le reali capacità di intervento
umano e le conoscenze dell’epoca. Già prima di allora erano stati usati
contenitori a pressione e camere iperbariche per esperimenti che
confermassero le ipotesi di P.Bert e J.S. Haldane, ma le loro
caratteristiche erano quelle di un mero cilindro privo di dotazioni e
sottosistemi di supporto e controllo. Nell’intervallo fra le due guerre
cominciarono a svilupparsi installazioni iperbariche destinate a fungere
da simulatori di immersione tanto per i palombari e il personale destinato
ai lavori in immersione o in iperbarismo, quanto per i sommergibilisti che
venivano sottoposti ad addestramento specifico per la fuoriuscita di
emergenza da sottomarini rimasti intrappolati o bloccati sul fondo. Una
spinta decisiva ed energica alla costruzione dei simulatori di immersione
profonda e al loro impiego si manifestò a partire dalla fine degli anni
“50 (q.v. progetto Genesis US Navy, 1957 – 58) intensificandosi
progressivamente negli anni “60 e fino agli anni “70 in risposta alle
esigenze della immersione industriale che da un lato richiedeva una
intensa attività sperimentale per nuove miscele respiratorie e nuove
procedure di immersione idonee a maggiori profondità di lavoro e
dall’altro aveva un bisogno crescente di sistemi e metodi per
l’addestramento del personale alle immersioni in alto fondale. Nella sua
versione tipica e più diffusa il simulatore di immersione (wet & dry)
comprende una o più camere iperbariche (dry hyperbaric quarters) collegate
in vario modo con una camera sottostante, di variabile configurazione e
dimensione, piena d’acqua (wet pot) per consentire la esecuzione di vere e
proprie immersioni e di attività di vario genere in condizioni
strettamente aderenti a quelle incontrate in mare.
L’HABITAT SOTTOMARINO
Dalla leggenda di Alessandro Magno, che si vuole abbia trascorso una
settimana sul fondo del mare all’interno di una grande botte di cristallo,
in poi il sogno di una “casa sotto il mare” ha ravvivato le fantasie
dell’uomo impegnato in un faticoso iter di conoscenza e di conquista
dell’idrosfera. Nonostante questi sogni e queste fantasie, oltre duemila
anni sono trascorsi prima che qualche concreto e razionale accenno
progettuale venisse tracciato. Il primo accenno basato su fondamenti
dotati di qualche valore tecnico e tecnologico compare nel 1935 ad opera
di Robert Davis che traccia e delinea un habitat sottomarino nel quale i
palombari, impegnati in lavori lunghi e complessi su un relitto di grandi
dimensioni, possono trascorrere il tempo fra un intervento e il successivo
senza dovere risalire in superficie. Siamo qui ancora ben lontani dalla
saturazione e dai presupposti tecnologici indispensabili per realizzare
concretamente questo concetto, ma l’habitat ante litteram che emerge dai
disegni di Davis è in nuce la espressione applicativa delle moderne
tecniche di intervento profondo.
Meno di trenta anni dopo i concetti espressi da R. Davis cominciò lo
sviluppo applicativo del concetto di habitat sottomarino. Già nel 1956
Edwin A. Link sottopose a un comitato della Smithsonian Institution uno
schema progettuale per l’impiego di un sistema di immersione che
permettesse lunghe permanenze all’uomo sul fondo del mare e poi ne
consentisse il recupero e la decompressione in superficie. In pratica non
si trattava di altro che la estensione concettuale e l’ampliamento
applicativo della SDC dei palombari in scala maggiorata. Nel 1962 si aprì
la lunga serie delle immersioni sperimentali profonde e prolungate che il
6 Settembre dello stesso anno culminarono con la permanenza di un
operatore a 61 metri di profondità per oltre 24 ore (MAN IN THE SEA I). Il
primo esperimento di vita sotto il mare aprì la lunga lista di habitats
sottomarini e di progetti sempre più profondi e prolungati di permanenza
umana sul fondo : CONSHELF I (1962), CONSHELF II (1963), MAN IN THE SEA II
(1964), SEALAB I (1964). Questi primi passi di conoscenza ed esperimenti
segnarono il netto predominio mondiale di USA e Francia. Tipicamente gli
habitat impiegati erano caratterizzati da un certo numero di ambienti
iperbarici variamente collegati e dotati di un accesso/uscita inferiore in
comunicazione col mare aperto. Tutte le esigenze energetiche e di
condizionamento ambientale erano soddisfatte da sistemi di life support
variamente strutturati e legati a una stretta dipendenza dalle strutture
di appoggio in superficie o sulla costa vicina. Questo obbligò, tra
l’altro, a scegliere per i progetti di vita sotto il mare aree geografiche
caratterizzate per qunto possibile da acque calde e da zone ridossate e
protette dalla azione dei venti dominanti. Seguirono altri progetti:
SEALAB II (1965), CONSHELF III (1965), HYDROLAB (1966), TEKTITE I (1969),
SEALAB III (1969), TEKTITE II (1970), caratterizzati da una ricerca
intensa e determinata di maggiori profondità e maggiori capacità esecutive
da parte degli operatori in termini lavorativi veri e propri. Questo
coincise con un crescente interesse dell’industria verso le possibilità
applicative della permanenza dell’uomo sott’acqua per lunghi periodi e
culminò nella prima applicazione lavorativa assoluta di queste tecniche
nel Settembre 1965, in acque interne per eseguire lavori alla base della
diga di Smith Mountain (Virginia) sul fiume Roanoke, dove quattro
operatori in saturazione completarono a 41 e a 62 metri di profondità
interventi che, con le normali tecniche di intervento dalla superficie,
avrebbero richiesto l’impiego quotidiano di un gruppo di tecnici subacquei
otto volte più numeroso (i.e. 32 OTS). Per l’occasione venne posto in
opera un sistema (CACHALOT) di habitat e campana caratterizzato,
difformemente da quanto avveniva per gli habitat sperimentali, da una
permanenza degli operatori in superficie, all’interno di camere
iperbariche, e da un loro transito da e per il fondo mediante una campana
pressurizzata. I risultati furono tanto soddisfacenti che meno di un anno
dopo, nel Settembre 1966, lo stesso sistema CACHALOT, costruito dalla
Underseas Division della Westinghouse Electric Corporation, venne
reimpiegato in mare nel Golfo del Messico per interventi di lavoro a 61
metri di profondità e oltre, sulla base di una piattaforma distrutta da un
uragano. Gli interventi, eseguiti da sei OTS.AF. in saturazione durarono a
lungo e totalizzarono oltre 3,600 ore di immersione fino ad una profondità
massima di 73 metri. Lo stesso risultato non sarebbe stato praticamente
raggiungibile con OTS operanti direttamente dalla superficie. In questo
secondo periodo anche altre nazioni si unirono alla corsa verso l’idrospazio
di americani e francesi. Si registrarono così diversi altri progetti:
CHERNOMOR (URSS, 1968 – 1974), SEATOPIA (Giappone, 1968 – 1973), HELGOLAND
(RFT, 1968 – 1976).
L’IMPIANTO DI BASSO FONDALE
L’impianto di basso fondale (air diving station) è tipicamente costruito e
costituito per consentire interventi di relativamente breve durata a
profondità comprese fra la superficie e l’isobata di 50 metri. Poichè
questo è il settore caratterizzato dall’impiego di aria compressa o di
miscele di azoto iperossigenate rispetto all’aria (AIROX, NITROX I, NITROX
II) vi sono compresi sistemi e sottosistemi previsti per l’impiego
respiratorio di aria compressa. Le prassi operative correnti, le
imposizioni legislative e le restrizioni procedurali impongono in ambiente
industriale il ricorso a sistemi di immersione alimentati dalla superficie
e dotati di ombelicale con comunicazioni telefoniche, ponendo de facto e
de jure al bando gli autorespiratori autonomi che non consentono il
mantenimento di un collegamento tangibile fra l’uomo immerso e gli
operatori di supporto in superficie. La tipica e schematica configurazione
di una stazione di immersione in basso fondale comprende:
- camera iperbarica a doppio compartimento per ricompressione terapeutica
(DDC)
- sistema di messa a mare dell’operatore (basket)
- campana aperta (wet bell) per immersioni oltre l’isobata di 25 metri
- compressore aria alta pressione con filtri
- pacco bombole (riserva polmone) di aria compressa
- consolette di controllo, alimentazione (aria compressa) e comunicazioni
per due OTS
- ombelicali (manichetta aria compressa, pneumofatometro, acqua calda,
comunicazioni telefoniche, segnali TV)
- bombola/e di riserva di emergenza (bail out bottle)
- caschi rigidi o caschi soffici con maschera oronasale
- bombola di ossigeno terapeutico con inalatore
- attrezzature individuali da immersione
- dotazione primo soccorso
TECNICHE E SISTEMI DI BASSO FONDALE
(aria compressa o miscela azoto – ossigeno)
Sistemi autonomi
AUTORESPIRATORE AD ARIA COMPRESSA (ARA) (SCUBA gear)
Sistemi vincolati
PALOMBARO A SCAFANDRO ELASTICO (hard hat diving gear)
OTS CON NARGHILE’ (surface oriented diving)
CAMPANA APERTA (wet bell)
L’AUTORESPIRATORE AUTONOMO AD ARIA COMPRESSA (ARA), costituito solitamente
da una coppia di bombole, meno frequentemente da una sola bombola (monobombola)
o da un gruppo di tre bombole (tribombola), che contengono aria compressa
a 150 o 200 atmosfere, é il classico e diffusissimo sistema per immersione
autonoma utilizzato nello sport, nella ricerca scientifica e, in modo
saltuario e occasionale con molte restrizioni, nelle attività commerciali
per compiere interventi di durata relativamente limitata a profondità
contenuta senza dovere ricorrere a installazioni ingombranti e di
difficlle trasporto. L’aria contenuta nelle bombole viene ridotta dalla
alta pressione di carica alla pressione ambientale mediante una valvola
erogatrice (erogatore) che permette al sommozzatore di inspirare “a
domanda” in base alle necessità del proprio ritmo respiratorio espirando
successivamente tramite un sistema di scarico che disperde l’aria viziata
nell’acqua circostante producendo così le caratteristiche bolle che
indicano la presenza dell’uomo in immersione. Un autorespiratore bibombola
di tipo corrente consente una immersione di circa un’ora a una profondità
media ( 20 ÷ 30 metri) con una durata tanto minore quanto maggiore é la
profondità e con una riserva che consente, al termine della immersione, la
effettuazione delle tappe di decompressione, in genere di pochi minuti,
imposte dalla profondità raggiunta e dal tempo di permanenza sul fondo. Il
grosso vantaggio dell’autorespiratore ad aria compressa é rappresentato
dalla completa libertà di movimento che il suo uso consente al
sommozzatore, ma in questa autonomia, che implica completo svincolo dalla
superficie, risiede anche l’aspetto negativo del sistema che non permette
di garantire all’operatore, durante la immersione e lo svolgimento del suo
lavoro, tutta la assistenza e la sicurezza che possono venire fornite
dalla superficie. Questi aspetti detrimentali sotto il profilo della
sicurezza e della autonomia di durata, nel caso di immersioni impegnative
e protratte nel tempo, hanno fatto sì che l’impiego moderno dell’ARA sia
praticamente ristretto all’uso sportivo e a pochi compiti fondamentalmente
ispettivi legati più alle attività di ricerca scientifica che di
operazioni commerciali.
Il PALOMBARO A SCAFANDRO ELASTICO ha rappresentato per oltre un secolo e
mezzo (dal momento della comparsa nel 1835 di primi scafandri elastici
chiusi di Bethell, di Fraser e di Siebe) il sistema di lavoro e intervento
subacqueo in aria compressa. Attraverso una manichetta gommata il
palombaro viene rifornito dalla superficie da un continuo flusso di aria
che gli affluisce nel casco all’interno del quale egli respira liberamente
eliminando la anidride carbonica con il rinnovo di aria e con la emissione
nell’acqua circostante dell’aria in eccesso. Lo scarico dell’aria in
eccesso viene comandato dallo stesso palombaro che con la testa apre e
controlla una valvola di non ritorno situata sulla parete laterale del
casco verso la nuca. L’abito gommato, sul quale si inserisce in tenuta
stagna il collare del casco, protegge il palombaro dal freddo mantenendolo
asciutto e consente, entro certi limiti, di potere variare l’assetto
idrostatico rispettivamente gonfiando o sgonfiando il vestito con accurato
controllo della valvola di scarico. Per le caratteristiche stesse di
ingombro e peso del sistema il palombaro, che é appesantito da due zavorre
di circa 20 Kg. totali sul petto e sul dorso, si sposta camminando sul
fondo e indossa scarpe zavorrate con puntale di ottone e suola di piombo.
Il suo modo di spostarsi e di lavorare é caratterizzato da questo assetto
pesante che si contrappone all’ assetto leggero tipico del sommozzatore
per il quale la progressione avviene nuotando sopra il fondo in condizioni
ideali di equilibrio idrostatico. La diversità fondamentale dei concetti
di intervento di palombaro e sommozzatore risiede nella differenza di
assetto più che nella diversità di autonomia e di disponibilità di aria
compressa. Si tratta di due situazioni non confrontabili in quanto basate
su concetti e filosofie complementari piuttosto che competitive. Prova di
questo é il fatto che con la comparsa della figura del sommozzatore negli
anni ’50, il palombaro non scomparve, ma la sua fisionomia servì allo
sviluppo delle tecniche di alto fondale e alla nascita del narghilé.
Il SOMMOZZATORE CON NARGHILE’ rappresenta il risultato della applicazione
dei concetti tipici di assetto leggero e di alimentazione dalla superficie
e fonde diversi aspetti caratteristici tanto della figura del palombaro
quanto di quella del sommozzatore. La nascita di questo sistema é stata
dettata dalla esigenza di prolungati tempi di immersione tali da non
essere consentiti dalla limitata riserva di aria compressa contenuta nelle
bombole. Il narghilé é costituito da una adeguata lunghezza di ombelicale
che convoglia aria compressa dalla superficie al sommozzatore in
immersione. Il sommozzatore mantiene le proprie caratteristiche di assetto
leggero e di mobilità a mezz’acqua. La presenza di una manichetta di
mandata dell’aria compressa, collegata a una maschera a gran facciale o a
un casco di immersione di tipo leggero, consente anche di aggiungere un
cavo elettrico per le comunicazioni telefoniche, uno pneumofatometro che
consente in superficie di conoscere la esatta profondità alla quale si
trova il sommozzatore, un tubo per l’invio di acqua calda al sommozzatore
nel caso di immersioni in acque molto fredde, un cavo coassiale per
l’eventuale invio in superficie di immagini video provenienti da una
telecamera che il sommozzatore può tenere in mano o fissare sul casco. In
questa configurazione il sommozzatore può permanere in immersione anche
per alcune ore, senza alcuna preoccupazione di autonomia respiratoria o di
temperatura dell’acqua, effettuare la decompressione in acqua e quindi
riemergere senza mai smettere di essere in contatto con la superficie e
con il personale di assistenza. E’ stata l’industria offshore per gli
interventi in appoggio alla ricerca e allo sfruttamento degli idrocarburi
che ha determinato il successo di questo sistema di immersione. La discesa
in acqua e la risalita possono avvenire anche da piattaforme situate a
diverse decine di metri sopra la superficie del mare, mediante gabbie o
telai di supporto manovrate per mezzo di verricello o di grue. L’insieme
di queste caratteristiche rende il sistema nettamente preferibile, per le
operazioni offshore in basso fondale, tanto al palombaro quanto al
sommozzatore con autorespiratore autonomo.
La CAMPANA APERTA é stata sviluppata come estensione della gabbia di messa
a mare e recupero del sommozzatore con narghilé. E’ costituita da una
struttura metallica sulla sommità della quale é montata una calotta di
plexiglass o di metallo con hublots di plexiglass all’interno della quale
due sommozzatori possono sostare mantenendo la testa e il busto
all’asciutto nella bolla d’aria che può venire creata. Dalla campana, che
altro non é se non la storica campana di immersione nella sua versione più
schematica e semplice, il sommozzatore può recarsi sul punto di lavoro
restando collegato tramite l’ombelicale. Il vantaggio della campana aperta
rispetto al semplice sistema a narghilé é che si può utilizzare una coppia
di sommozzatori contemporaneamente, oltre al fatto che il sistema,
risultando più confortevole, offre possibilità di immersioni più lunghe e
maggiore sicurezza in fase di decompressione. Inoltre l’ombelicale del
sommozzatore si snoda a partire dalla campana e non dalla superficie,
limitando così il rischio di impigliamenti a strutture sommerse e
riducendo l’effetto della corrente e la scomodità che ne deriva.
Gli interventi a profondità maggiori di 50 metri richiedono la
applicazione delle tecniche di alto fondale le cui caratteristiche
fondamentali possono essere riassunte nell’impiego di miscele respiratorie
sintetiche e nella capacità di pressurizzazione degli operatori
all’interno di moduli di trasferimento.
L’IMPIANTO DI ALTO FONDALE
L’impianto di alto fondale è concepito, costruito e costituito per
consentire interventi prolungati e/o profondi di operatori iperbarici a
profondità situate oltre l’isobata di 50 metri con miscele gassose
sintetiche (HELIOX, HYDROX, HYDRELIOX, TRIMIX) garantendo la possibilità
di mantenere gli operatori in ambiente pressurizzato durante la discesa e
la risalita e durante le fasi di decompressione in superficie o di
permanenza in condizioni iperbariche (saturazione). Le caratteristiche
strutturali e funzionali di un impianto iperbarico di alto fondale ne
consentono anche la applicazione a quote tipiche della fascia operativa di
basso fondale quando si rende necessaria una permanenza abnormemente lunga
degli operatori sul fondo per tempi eccedenti i limiti di sicureza e di
logica operativa degli interventi lavorativi condotti dalla superficie.
Struttura
Un sistema di alto fondale tipicamente si articola su :
- camera iperbarica a doppio compartimento dotata di impianti sanitari e
di collegamento (effettivo o potenziale) ad altre camere (DDC)
- campana di immersione (SDC) collegabile alla camera e collegata con
ombelicale alla superficie
- sistema di controllo e comando dell’ambiente iperbarico (DDC)
- sistema di controllo e comando della campana (SDC)
- sottosistemi e sistemi ancillari
- sistemi di condizionamento ambientale
- riserve di miscela respiratoria e gas terapeutici
- modulo di salvataggio iperbarico
Sottosistemi e sistemi ancillari
I sottosistemi e i sistemi di supporto comprendono tutte le strutture e le
unità funzionali che consentono il funzionamento dell’impianto e
garantiscono la sicurezza degli operatori:
- sistema di messa a mare e recupero della campana (LARS)
- sistemi di potenza idraulica, elettrica e pneumatica
- sistemi di emergenza
- compensatore (heave compensator) per la campana e la zavorra
- verricelli e argani per zavorra e ombelicale
- zavorra campana con cavi guida
Sistemi di condizionamento ambientale
I sistemi di condizionamento ambientale (ECU, LSS) garantiscono che
all’interno degli ambienti iperbarici vengano mantenute per tutto il tempo
delle operazioni e della permanenza in saturazione degli operatori, che
possono protrarsi per diverse settimane, condizioni ottimali dei parametri
ambientali (temperatura, umidità, tenore di ossigeno, concentrazione dei
gas nocivi e degli odori, etc.). Per ottenere questo è necessario che il
sistema di condizionamento ambientale prelevi la atmosfera interna delle
camere iperbariche, la purifichi, la deumidifichi, la riscaldi, la
rigeneri dell’ossigeno metabolico consumato e la reimmetta nell’ambiente
senza interruzione. Stante la criticità della funzione espletata e la
importanza di un corretto e perdurante funzionamento del sistema di
condizionamento, la sua struttura è articolata su un numero apprezzabile
di elementi vicarianti e sostituibili che possono essere smistati e
alternati garantendo tanto nel caso di riparazioni (e.g. avarie
impreviste) quanto nel caso di manutenzioni periodiche ( e.g. sostituzione
filtri) che il sistema non debba venire arrestato. Il sistema di
condizionamento ambientale include inoltre strumenti estremamente precisi
e accurati per la determinazione dei parametri ambientali (temperatura,
pressione parziale di ossigeno, concentrazione di biossido di carbonio,
umidità, etc.) i cui valori sono tollerabili entro margini di oscillazione
tanto più ristretti quanto maggiore è la profondità di compressione degli
operatori.
Modulo di salvataggio iperbarico
Il rischio di un incidente alla imbarcazione di supporto che ospita il
sistema di saturazione con gli operatori all’interno impone il problema
della loro evacuazione nel caso di un abbandono nave. Le soluzioni sono
rappresentate dalla possibilità di:
- evacuare gli operatori con la stessa campana di immersione (SDC) purchè
questa sia dotata di passaoggetti, sistemi di supporto, collegamenti
esterni per acqua calda e miscela, recettività adeguata
- evacuare gli operatori tramite un modulo costituito da una camera che è
collegata alle altre camere del sistema, ma può essere sganciata e può
galleggiare spontaneamente e liberamente in superficie nell’arttesa di
essere ripescata o rimorchiata al sicuro
- evacuare gli operatori tramite una vera e propria scialuppa di
salvataggio che contiene al suo interno una camera iperbarica collegata
all’impianto di saturazione, ma sganciabile in caso di necessità di
abbandono nave.
In ogni caso è necessario che il modulo di evacuazione degli operatori,
qualunque esso sia, possa permettere il successivo accoppiamento con un
impianto di saturazione situato a distanza ragionevole e possa, comunque,
consentire la effettuazione della completa decompressione degli operatori
al suo interno con il supporto di dotazioni (riserva miscela e gas
respiratori, ECU portatile, etc.) opportunamente previste e disponibili.
TECNICHE E SISTEMI DI ALTO FONDALE
(miscele sintetiche binarie o ternarie)
Sistemi di immersione
IMPIANTO DI ALTO FONDALE (deep diving system)
IMPIANTO DI SATURAZIONE (saturation diving system)
SOTTOMARINO PORTASOMMOZZATORI (diver lock out submersible)
UNITA’ MOBILE COMPOSTA (MDU – Mobile Diving Unit)
Metodi di immersione
IMMERSIONE DI INTERVENTO (bounce diving)
IMMERSIONE IN SATURAZIONE (saturation diving)
L’ IMPIANTO DI ALTO FONDALE consente con sicurezza la discesa di due
operatori in profondità, all’interno di una campana, la loro fuoriuscita
per la esecuzione del lavoro, la loro successiva risalita con
decompressione in ambiente asciutto e confortevole. Un sistema di
immersione per alto fondale include quindi tipicamente una campana di
immersione, una camera iperbarica (camera di decompressione) alla quale la
campana può venire collegata per consentire un trasferimento sotto
pressione agli operatori, una serie di sottosistemi destinati allo
svolgimento e alla sicurezza delle operazioni (verricello e sistema di
messa a mare / recupero campana, cabina di controllo e distribuzione
miscela respiratoria, etc.....). La campana di immersione, derivata dalle
rudimentali campane rinascimentali, ha nella sua configurazione moderna un
doppio sistema di portelli che ne consente l’impiego tanto in situazione
iperbarica quanto in situazione ipobarica. Questo consente di avere
all’interno della campana pressione atmosferica fino alle quote del fondo
(discesa) e pressione equivalente alle quote delle tappe di decompressione
fino in superficie (risalita). La campana in pratica rappresenta l’habitat
subacqueo utilizzato durante la esecuzione degli interventi; tutte le
alimentazioni derivate dalla superficie (miscela respiratoria, acqua
calda, illuminazione, etc.) giungono alla campana e da questa vengono
inviate al sommozzatore tramite il suo ombelicale. Per la effettuazione
della decompressione, spesso di diverse ore, al termine della immersione
la campana viene recuperata a bordo della nave appoggio e collegata alla
camera di decompressione, all’interno della quale gli operatori si possono
trasferire in condizioni iperbariche. Quando il metodo di immersione di
intervento, effettuato con immersioni del tipo “a rimbalzo” caratterizzate
da una rapida discesa, una limitata permanenza e una decompressione
proporzionale, non é sufficiente per i requisiti del lavoro da compiere,
l’impianto di alto fondale diviene più complesso, arricchendosi di altri
componenti, e si trasforma in un IMPIANTO DI SATURAZIONE. Un impianto di
saturazione deve comprendere necessariamente un sistema di condizionamento
ambientale (ECU), capace di rigenerare e mantenere fisiologicamente
ottimale per più giorni la atmosfera sintetica interna delle camere
iperbariche nelle quali gli operatori vivono e si riposano, un sistema di
analisi e di controllo, un sistema di riscaldamento, un sistema di
rifornimento di cibo e bevande, un sistema di evacuazione e scarico dei
rifiuti. In alternativa all’impiego della campana di immersione per il
trasporto dei sommozzatori da e per il fondo é possibile utilizzare, in
combinazione con l’impianto di alto fondale / saturazione, un SOTTOMARINO
PORTASOMMOZZATORI dotato di capacità di movimento autonomo oppure una
UNITA’ MOBILE COMPOSTA, costituita dalla combinazione di una normale
campana di immersione e di un modulo a pressione atmosferica all’interno
del quale trovano posto tecnici non iperbarici. Il sottomarino
portasommozzatori, estremamente diffuso e largamente impiegato nella
seconda metà degli anni settanta, é stato successivamente soppiantato nel
settore dell’industria dai sistemi di saturazione installati a bordo di
navi con posizionamento dinamico e con capacità di spostarsi rapidamente
anche durante le fasi di lavoro sul fondo.
BIBLIOGRAFIA, RIFERIMENTI, CITAZIONI
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